Ogni volta che esce un nuovo libro di Mario Isnenghi, uno dei più grandi storici italiani contemporanei nonché attento studioso di miti storico-culturali, vale sempre la pena di leggerlo con cura. Negli ultimi anni Isnenghi ha intrapreso un percorso di avvicinamento al suo personale passato, come testimoniano Vite vissute e no. I luoghi della mia memoria (il Mulino, 2020), e in parte anche questo Se Venezia vive, dove però lo studioso veneziano indaga la memoria della sua città. Anzi, la non-memoria, come recita il sottotitolo, in quanto si tratta di “Una storia senza memoria”. Uno studioso di miti come lui non poteva non affrontare quel vero e proprio serbatoio di luoghi comuni che è Venezia tra Ottocento e Novecento, dalla fine della Serenissima a oggi.
La madre di tutte le mistificazioni è l’idea di Venezia quale città votata alla morte e al passato. Città lagunare e crepuscolare, dove tutto viene a finire, a decomporsi, come accade al celebre protagonista di La morte a Venezia; proprio il romanzo breve di Thomas Mann viene assunto a epitome del mito culturale di Venezia mortifera e passatista. Ma la città lagunare, luogo di riflessi e maschere, non è tutta qui. Certo, questa componente passatista è innegabile, ma alla prova dei fatti risulta ben più minoritaria e fuorviante di quanto comunemente pensiamo; un vero e proprio mito che ha origini relativamente recenti, una genesi e uno sviluppo complessi. Isnenghi si addentra in questo territorio armato di un ricco coté letterario, ottimo grimaldello per smontare le costruzioni culturali e svelarne gli ingranaggi.
Tutto parte dal dualismo generatosi tra Ugo Foscolo e il suo celebre Jacopo Ortis. Se lo scrittore stimava Napoleone ed era convinto che il Risorgimento cominciasse con la “brutale spinta propulsiva” dell’invasione-liberazione francese, a sopravvivere ai posteri è invece la drastica decisione del suo protagonista, che vede nel suicidio l’unica soluzione alle proprie delusioni politiche e amorose, dopo la fine della Serenissima (sancita nel 1797 dal trattato di Campoformido stipulato coi francesi). A proposito di intellettuali-ideologhi, cent’anni dopo Venezia avrà anche Gabriele D’Annunzio, che vede nella città lagunare l’avamposto ideale per la conquista di Fiume, il teatro perfetto per la creazione di un nuovo intellettuale che esce dai salotti e sale sugli aerei. Tecnologia, velocità, conquista: difficile pensare a qualcosa di più moderno e meno passatista. Specie se si pensa che all’epoca l’Arsenale di Venezia era un’officina militare di importanza strategica capitale, tecnologicamente all’avanguardia.
Nel percorso tracciato da Isnenghi, la letteratura serve a stabilire categorie di fondo, porti sicuri su cui fare riferimento negli approfondimenti di figure ed episodi. A questo proposito, un ruolo importante è svolto dalle Confessioni di un italiano, ritratto di una borghesia/patriziato che in gioventù ha sperimentato gli entusiasmi rivoluzionari della prima metà dell’Ottocento ma che col tempo ambisce a trasformarsi in classe imprenditoriale. Ed è proprio questo attivismo borghese a rivelarsi una forza viva, e soprattutto consapevole, nel plasmare il futuro della città – futuro che pure non sembra essere stato consegnato alla memoria storica di Venezia. Isnenghi ripercorre l’avventura della creazione del Lido – moderno luogo di villeggiatura che si ispira alle grandi esperienze europee ma che nel panorama italiano costituisce un’autentica novità – e ricorda come, proprio negli anni in cui veniva definita “mendica”, Venezia sollecitava il collegamento ferroviario con una recalcitrante Milano (1846). L’ambizioso progetto comprendeva l’avveniristico ponte ferroviario con la terraferma, frutto di una scelta spregiudicata che implicava un ripensamento della città come isola appartata – scelta che, inutile dirlo, fu vista con orrore dagli aficionados della Venezia byroniana e romantica. Eppure, da qui alla creazione di un polo industriale come Porto Marghera (1917), sull’altro lato della laguna, in un certo senso il passo è breve.
Ex patrizi come i Foscari e i Grimani sono i protagonisti della politica e i motori dello sviluppo tecnologico – altro segno di vitalità e di continuità con il passato “imprenditoriale” della Serenissima. D’altro canto, però, Isnenghi osserva come proprio la nascita di Porto Marghera, avvenuta in un periodo di grave crisi economica, abbia costituito un’occasione sprecata per le forze politiche di sinistra attive nel territorio. La visione miope dei socialisti dell’epoca, convinti della necessità di collaborare con il capitale per favorire la creazione di nuovi posti di lavoro, porta a una sconfitta storica di enorme portata per il tessuto socio-economico di Venezia e del Veneto tutto. I padroni, infatti, andranno a reclutare gli operai tra gli abitanti delle campagne, dando origine a quella figura di “metal-mezzadro”, operaio-contadino apolitico che “arriva in fabbrica in bicicletta e sparisce a fine turno per tornare al paese a curare l’orto”. Per questo nel Veneto l’idea di una “visione”, un modello di sviluppo faticherà – come ancora fatica – a provenire dal basso; a differenza di ciò che accadeva in altre parti d’Italia, le classi dirigenti che da secoli tenevano in mano Venezia erano ancora le più abili a rispondere efficacemente alle sfide del proprio tempo, e forse a influenzare la memoria omissiva che affligge la città dall’Ottocento in poi.
In realtà a Venezia il potenziale rivoluzionario non mancava. Isnenghi recupera un altro pezzo di memoria misconosciuta, forse il più sorprendente, riguardo i moti del 1848: tutti ricordano le famose Cinque giornate di Milano, ma la repubblica capeggiata da Daniele Manin dura ben 17 mesi. Eppure, a essere passati alla storia sono i versi di Arnaldo Fusinato, resi celebri, in parte, da Battiato – versi che parlano di una sconfitta: “Le corde stridono, / La voce manca, / Sul ponte sventola / Bandiera bianca!”
È vero che fame e colera alla fine resero impossibile la resistenza veneziana, ma il 2 aprile 1849 si votò per proseguire “a ogni costo” la repubblica. La verità è che questa Venezia repubblicana era troppo scomoda per l’epoca, e soprattutto isolata rispetto all’entroterra compattamente conservatore.
Con Se Venezia vive Isnenghi ha offerto dunque un dono prezioso non solo ai cittadini veneti, ma a tutti gli italiani, restituendo a Venezia il suo posto legittimo nella storia d’Italia. La speranza è che il suo contributo serva infine a liberarla dalla retorica limitante della città fragile come cristallo, città eternamente da salvare, tra crisi climatica e turismo schiacciasassi. Venezia ha tutti i mezzi per salvare sé stessa: “È cambiata la scala di grandezza dei problemi: e i rimedi siano all’altezza dei problemi. La famosa, la tanto decantata Serenissima, questo appunto riusciva a fare”.