Domanda di rigore: può un buon libro di cultura e critica cinematografica risultare avvincente quanto un ottimo libro di narrativa? Se l’appassionato militante su ambedue i fonti, come il sottoscritto of course, non ha dubbi nel rispondere perché è giusto la passione che anima il suo approccio, la sentenza non è così scontata ma soprattutto è tale da giustificare la presenza di siffatta recensione sulle pagine di Pulp Libri. Scegliendo il più banale degli esempi a sostegno: come prescindere dalle note critiche su un film come Apocalypse Now senza entrare nel merito delle vicende del travagliato shooting dell’opera? Talmente intense e sempre sul confine tra vita reale e arte dall’aver generato nel 1991 il leggendario documentario firmato dalla moglie di Coppola Viaggio all’inferno (Hearts of Darkness: A Filmmaker’s Apocalypse), interamente dedicato alla realizzazione del film. Dettagliatissimo dietro le quinte basato sulle riprese effettuate durante la lavorazione che racconta ampiamente la travagliata gestazione del film, sia a livello tecnico che umano. E divagando ulteriormente: come parlare del cinema di Orson Welles senza entrare a gamba tesa nella sua vita?
Ma fermiamoci qui con le digressioni, perché il concetto è chiaro. La vita, le passioni e l’essenza vitale di Peter Cushing ne hanno forgiato il rapporto con il cinema, la scalata fortissimamente voluta per esserci, il ruolo progressivamente divenuto centrale nella dinamica storica della Hammer Film. Era certo un tipo gentile, come spiega Emanuela Martini nella prefazione, umile e tollerante, ma altrettanto coriaceo nel perseguire i suoi progetti. Ed è stupefacente la minuziosa aneddotica con cui Galeotti corrobora il work in progress della carriera di Cushing, partita dal basso che più basso non si può (15 scellini a settimana come assistente di scena) sino ai primissimi passi (a Hollywood!) in cui conobbe da vicinissimo star dell’epoca quali Errol Flynn, Tyrone Power, Peter Lorre, David Niven, per citarne alcuni. Quando tornò nel Vecchio Continente, nel marzo del ’42, Peter aveva quasi trent’anni e si trovava alla vigilia di incontri basilari. Primo fra tutti, quello con Helen Beck, giovane inglese che cominciava a farsi strada nel mondo dello spettacolo e che sarebbe divenuta l’amore della vita. Facciamolo raccontare a Galeotti (pag. 34):
“… a maggio Helen e Peter si incontrarono per la prima volta a Drury Lane, all’uscita del Theatre Royal. Dovevano condividere la scena per il resto della tournée. Nacque all’istante un sentimento profondo tra i due. Fu quello che si può definire un colpo di fulmine. Ma se fin dall’inizio fu amore vero, da subito Helen palesò anche quei disturbi di salute che l’avrebbero accompagnata per tutta la vita, rendendola fragile e causando negli ultimi suoi anni un grave tormento per il suo devoto compagno. [….] Il 10 aprile 1943 si sposarono a Londra. I genitori di Helen fecero da testimoni, mentre la famiglia di Peter non fu informata per paura che potessero obiettare su tale scelta. Si concessero una breve vacanza nel Sussex e poi andarono a vivere a Londra, vicino ai genitori di lei. […] Peter e Helen non volevano restare distanti. Così decisero di comune accordo che Peter avrebbe continuato a fare l’attore e Helen lo avrebbe sostenuto”.
Pochi dettagli e Galeotti ci fa capire l’importanza assoluta della storia d’amore tra i due. Al punto da avanzare legittimi sospetti sull’espressione quasi sempre triste e seria, pensosa e meditabonda, di Frankenstein/Van Helsing nei film Hammer. La salute di Helen procedette sempre fra alti e bassi mentre la carriera di Cushing decollava.
Come ricorda con precisione puntigliosa Galeotti, dopo un numero esorbitante di apparizioni televisive e cinematografiche, Cushing siglò il contratto della sua vita con la allora piccola casa di produzione Hammer: il 26 ottobre 1956 e il 2 maggio del ’57 La maschera di Frankenstein venne proiettato a Londra in prima mondiale, distribuito in Inghilterra nel mese di luglio e in tutto il mondo niente meno che dalla Warner Bros nei mesi successivi.
Da qui una escalation inarrestabile che rilanciò il gotico e l’horror in tutto il mondo, dando vita anche a fenomeni imitativi in America e in Italia. E pensare che il tutto accadeva all’interno dei piccoli studi di Bray nella campagna del Berkshire, in buona sostanza niente più di una grande e vecchia casa immersa nel verde vicino alle rive del Tamigi. Un set naturale che di volta in volta veniva adattato a castello di Dracula, a insediamento tibetano ne Il mostruoso uomo delle nevi, a laboratorio di Frankenstein o a scenario russo in Rasputin il monaco folle.
Attraversato un decennio interessante, e per certi versi trionfale, gli eroi del gotico e la Hammer si avviarono verso il viale del tramonto e la figura deperita e angosciata di Cushing ne Le figlie di Dracula fu il triste specchio delle vicende familiari che afflissero l’attore dal gennaio 1971. Fu questo l’anno in cui Helen volò via e a pag. 152 Galeotti riporta la traduzione della toccante lettera che la moglie scrisse a Peter poche ore prima di morire e di cui val la pena riportare uno stralcio:
“Fai risplendere ancora il sole nel tuo cuore e non struggerti per me, mio adorato Peter, perché questo causerà solo male e inquietudine. E non essere ansioso di lasciare questo mondo, perché non te andrai fino a quando non avrai vissuto per intero la vista che ti è stata destinata. E ricorda sempre, noi due ci incontreremo ancora, quando sarà il momento, questa la mia promessa”.
Va da sé che da questo punto in poi tutto per Cushing divenne più complicato. Citando ancora Galeotti (pag. 152), “con la scomparsa dell’amatissima moglie, per Peter avrà inizio un nuovo corso, sia umano che professionale, nell’anelata attesa di ricongiungersi a Helen per l’eternità. L’incrollabile fede in Dio alimentava in lui la convinzione che nell’aldilà si sarebbe riunito all’unico vero amore della sua vita. Come scrisse nel primo volume dell’autobiografia, la vita che amava veramente, la sua vera vita, finì con la morte di Helen. Accettò il destino con rassegnazione e trovò conforto nel sostegno dei tanti amici che seppero stargli vicino dopo quel tragico 14 gennaio del 1971”.
Da quel momento, quasi come in un mondo-specchio, i personaggi che interpretò ancora al cinema rispecchiavano la sua condizione esistenziale, tristi e solitari e non sorridevano mai. Tra i tanti, La casa delle ombre lunghe di Pete Walker, del 1983, una sorta di commedia parodistica dei luoghi comuni dell’horror dalla quale, soprattutto per la presenza di Cushing, l’effetto tristezza pareva inalienabile. Qui Peter si ritrovava accanto a Christopher Lee e a quell’altro campione del gotico che si chiamava Vincent Price. Galeotti lo fa solo notare senza dargli un particolare significato, ma si tratta di tre persone nate negli stessi giorni e ovviamente in anni diversi, e per chi crede nell’astrologia, o in ogni caso non ne trascura le indicazioni caratteriali, Cushing, Lee e Price hanno condiviso l’ovvietà professionale della loro carriera: amavano le tenebre, artisticamente parlando, ed esercitavano l’identico mestiere con impagabile e misurato senso dell’ironia. Da perfetti appartenenti al segno dei Gemelli, con controllata e produttiva schizofrenia. Se intendiamo andare a caccia di analogie, sempre restando nell’opinabile regno degli astri, si sappia che nell’identico periodo sono nati Miles Davis, gli scrittori dark James Blish, Francesco Dimitri, Douglas Preston, e la regina del gotico filmico Helena Bonham Carter che per anni è stata al fianco di Tim Burton. Se tutto questo non basta, il sottoscritto – che ha all’attivo una quarantina di libri di cifra horror – è nato il 28 maggio. Sarà una coincidenza? Ma figuriamoci.
Qui arrivati, seguite il consiglio: leggetevi Frankenstein e i mostri dell’inferno, scoprirete che scrivere e parlare di cinema è scrivere e parlare di vita vissuta. Sarà una retorica scoperta dell’acqua calda, ma non così scontato è lo scoprire che si può vivere una vita intera sul Confine, tra lo Schermo e l’Altrove.