La Storia (quella con la maiuscola) ha il suo pensiero. La Storia, quando incrocia gli umani, non si lascia intrappolare ma intrappola nei fatti anime perse e corpi disfatti, così come ce li narra Philip K. Dick in Cronache del dopobomba (titolo italiano), così come Pasolini ne praticherebbe contraddizioni e pagine predicatorie – entrambi, una volta per tutte, mostrificati nello zoo sfigurato e messo su con la massima precisione possibile da DeLillo. Storia e cronaca avanzano, insieme, dall’orizzonte verso terra, non come onda marina ma come vento distruggente e radioattivo, verso cui nessun potere potrà mai innalzare barricate. Fra grattacieli, muraglie e pianure ogni cosa è travolta.
Nel frattempo siamo tutti immersi in un controclima (Biancamaria Frabotta ne I nuovi climi ne descriveva bellezze tutt’altro che paradisiache) dove pochi poeti e scrittori sanno vedere la maledizione organizzata dal popolo terrestre, sbeffeggiante ogni altra essenza vitale del pianeta. La poesia di Mario De Santis, nel suo nuovo libro, testimonia con evidente piglio profetico (ma qui la profezia sfiora l’essenza precog che ogni vero poeta da millenni possiede) la cronaca che è, e che sarà sempre più tridimensionale. A sciami i suoi versi si fanno largo tra i pori epidermici, a sciami tentano di contrastare le cancellature post-novecentesche, con date e orari e stagioni e documenti, e di svelare quanto il carbonio organico ha saputo per milioni di anni consumarsi in una rissa fra abbandoni e rinnovi evolutivi. L’Oriente subito dopo il primo svincolo stradale, il Mediterraneo subito dopo le prime isole abitate, il tempo subito dopo i primi anni Duemila. I versi di Corpi solubili dicono questo, in anticipo fino all’ultima data possibile (13 febbraio 2024), un futuro non scritto come se non si potesse sapere il futuro. Poiché il tempo presente è non finito, il futuro mai come oggi non è esistente – e infatti fra gli scrittori non abbiamo più nessun Asimov, Dick o Clarke (per inciso, potremmo forse dirigerci verso un nipote di Sturgeon – ma esiste?).
De Santis consegna, e riassume, quel che ha visto dal ’90 in poi, riprende l’essenziale intensificato da lì sino al termine delle utopie (della notte, e del giorno), in un libro che non può avere una conclusione, o un gesto finale. Mettere mano al futuro non è più roba di sapiens: mai come in quest’epoca abbiamo affondato le possibilità del presente. Tanto da giungere alla completa “solubilità”, all’improbabilità di un’uscita dopo che i poeti sono stati poeti, e al dunque non lo sono stati più. Anche i poeti muoiono. E a ogni secolo ben pochi ne nascono (copyright Moravia). Gli altri, sono figli di un barcode.
La poesia di Mario esplora le macerie, e trova fossili consumati, arresi al destino imposto, e le polveri rimaste non sono quelle emesse dai vulcani ma le polveri prodotte dal respiro velenoso di noi sapiens, ormai capaci soltanto di parole disperse, inseguendo quanto non capiamo più. Avevamo piazze dove combattere intelletti ostili e freddi, occhi rivolti al cielo, avevamo forze contro gli allarmi, e la poesia ne dava conto, sapeva tradurre, ora le vendite sono compiute e il tempo non esiste più. Questa poesia visualizza il tasto micidiale, il realismo globale che pretende di cancellare le antiche pitture rupestri e di inciderne di nuove tramite le fiamme dei razzi di Musk, inchiodandoci alla realtà. Questa poesia va oltre la carta su cui è scritta, accade nei secoli che l’hanno preceduta, da Omero a Montale lasciando la memoria posata dove deve ancora stare: anche se “mal detta, mal ritrovata” (Beckett), come è la vita personale e collettiva sul pianeta dove si gioca a solubilizzarsi nella più torbida e nera acqua storica.