Catapultati nel giro di un anno dal centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini a quello di Italo Calvino, ci si può logicamente aspettare di trovare in libreria una messe di libri che propone di continuo l’accostamento tra i due autori, trasformando l’attitudine memorialistica in un’occasione meramente promozionale e bypassando altri tipi di filtro. A questo punto, per contrasto, come non ricordare un bel testo critico, forse più che altro polemico, che ebbe un certo impatto, quindici anni fa, come Pasolini contro Calvino: per una letteratura impura di Carla Benedetti?
Il bambino e le isole (un sogno di Calvino) di Marino Magliani si sottrae completamente a questa logica, avendo tutti i crismi di un’opera letteraria architettata probabilmente molto prima e comunque a prescindere dalle occasioni memorialistiche. Oltre a Calvino, infatti, la grande protagonista del romanzo di Magliani è la Liguria, già al centro di molte altre narrazioni dell’autore. Se però Il cannocchiale del tenente Dumont (L’Orma, 2021) si sviluppava secondo assi prevalentemente verticali, con le alture liguri a fornire lo scenario di una diserzione dai tratti spesso metafisici, Il bambino e le isole si sviluppa quasi esclusivamente secondo un asse orizzontale, continuamente ribadito dagli spostamenti del protagonista lungo i binari ferroviari che corrono, spesso vista mare (nonché vista isole, come recita lo stesso titolo del romanzo), dalla Riviera di Ponente a quella di Levante.
Il racconto del paesaggio – un dato che accomuna Magliani a Calvino e soprattutto a un’altra frequentazione letteraria e umana di grande importanza nella costituzione dell’opera di Magliani come Francesco Biamonti (1928-2001) – va di pari passo con la narrazione del protagonista, un doppio di Calvino direttamente partorito dalla fantasia di quest’ultimo e di cui si possono, di fatto, trovare varie tracce nell’opera calviniana, a partire forse dal racconto Il giardino incantato, incluso nella prima raccolta di racconti, Ultimo viene il corvo (1949). La trama intertestuale, tuttavia, non si limita al solo Calvino, ma include almeno altri due autori fondamentali del Novecento che il “doppio di Calvino” incontra nella sua esistenza e, poi, nel suo peregrinare lungo le rotaie: Walter Benjamin e Carlo Levi. Già questi brevi cenni sono forse in grado di dare conto di un viaggio che non è solo flânerie e digressione, ma attraversamento, e non soltanto della Liguria, ma di vasti territori della cultura italiana e europea del Novecento. Nessuna epica, però, e nessuna lirica: se Magliani adotta spesso un tono che si potrebbe agevolmente definire poetico, questo non è mai sentimentalista o eccessivamente liricheggiante, né si concede il lusso – peraltro piuttosto sterile – della rievocazione di un panorama intellettuale e politico ormai sbiadito, ma lo fa rivivere di continuo sulla carta.
A dare linfa vitale a questi incontri multipli è forse uno tra i tanti episodi memorabili del romanzo, nei quali – paradossalmente, ma non troppo – l’incontro viene a mancare. Non si tratta soltanto delle isole, sempre vagheggiate a riva dal “doppio di Calvino” e mai realmente conosciute; l’ossessione delle prime pagine, poi portata in sottotraccia per tutto il libro, è per l’incontro, generalmente mancato, con la lucertola ocellata, tipica della macchia mediterranea nel sud della Francia e nella costa occidentale della Liguria. Non il geco di Palomar, in questo caso, ma una lucertola che viene evocata di continuo ma sfugge alla vista, rinfocolando quel meccanismo del desiderio che è forse l’unico a poter dare autentica sostanza e vero colore all’incontro multiplo con la letteratura.