“Ai miei versi scritti così presto
che nemmeno sapevo d’esser poeta,
scaturiti come zampilli di fontana,
come scintille di razzi […]
Sparsi fra la polvere dei magazzini,
dove nessuno mai li prese né li prenderà,
per i miei versi, come per i pregiati vini,
verrà pure il loro turno.”
Scriveva così una Marina Cvetaeva ancora poco più che bambina (Koktebel, maggio 1913, nella traduzione di Pietro A. Zveteremich), di se stessa e delle sue prime produzioni poetiche, mostrando fin da subito alcune delle caratteristiche che più la contraddistinsero caratterialmente: la consapevolezza del proprio valore, il piglio altero e brioso, l’ostentata autonomia intellettuale, la radicalità.
Il filo conduttore del suo contegno, negli anni, si può dire che sia stato la sprezzatura, nell’accezione più vicina al sentire che Cristina Campo esprimeva in modo indelebile nel saggio “Con lievi mani” tratto da Gli imperdonabili (Adelphi, 1987). E con Cristina Campo Marina Cvetaeva condivideva la fascinazione per il mondo della fiaba orientale, la chiamata dell’eroe, un’epica della vita e dell’amore che, pur originando da una comune radice, finiva per prendere strade opposte, esprimendosi nella prima con una disciplina interiore che sfiorava l’ascesi, nella seconda con una vitalità combattiva, androgina nella sua fierezza, eppure fremente di un erotismo denso, tumido, vitale.
E tra i suoi “versi di giovinezza e di morte”, è venuto ora il turno del poema Car’-devica – letteralmente “Zar-fanciulla” – che proprio in questi giorni, a distanza di cento anni dalla sua composizione, approda in Italia, grazie a Sandro Teti Editore e all’accurato lavoro di traduzione della studiosa Marilena Rea. L’edizione è corredata di una postfazione di Monica Guerritore e di fascinose tavole tratte dall’edizione originale (GIZ, 1922).
Anche in quest’opera la via intrapresa, rispetto a Campo, è convergente ma speculare: il topos dell’eroe viene tessuto all’inverso, e l’eroe è la fanciulla, dal calore solare, la vergine guerriera
“…È un colosso di statura,
serpe-scudiscio la cintura,
la testa tocca il cielo blu,
sull’elmo una coda equina,
sul lobo – la luna-orecchino…”
indomita e furiosa combattente
“Dopo una notte sul cavallo a fare guerre
(imperla la fronte il sudore-rugiada),
accanto alla finestra, a ridosso del mare,
Zar-fanciulla linda la sua sciabola.
Tiene un colombo sulla spalla destra
tiene un gerfalco sulla spalla sinistra.
Ai suoi piedi, accovacciata, la balia
le tira a lucido gli stivali”.
Al contrario, il suo amato – lo Zarevič – è un personaggio imbelle, inetto, lunare:
“Non mi piace la mela rossa,
nemmeno le labbra di donna,
l’azzurra versta mi trasporta
lontano, nella nebbia rossa.
Che reggente sarei per voi,
e che eroe valoroso sarei?
Io, musicastro petto-stretto,
io di nulla m’intendo!”
che suscita nella fanciulla guerriera un amore tenero, compassionevole:
“Com’è piccino!
Fragilino!
Miserello!
Ha una divisa d’argento,
e che buffi riccioletti!
Che fa se è magrolino?
Di viso è tanto carino!”.
Gli altri personaggi sono altrettanto archetipici: l’odiosa matrigna, tentacolare e lussuriosa, “giovane serpe” che vuole irretire il figliastro di cui è invaghita, il vecchio “servo fronte-calva”, un malvagio stregone al suo servizio, una natura animata e parlante (la balena, il mare, il vento), e infine il marito tiranno, uno zar avvinazzato e violento, un parodico dio degli inferi che ha il suo regno oscuro nelle cantine.
“A chi servo così concio?
o che valgo due baiocchi*.
Senza onore – per il vino,
a chi servo così ciucco?”.
La narrazione è suddivisa in sezioni che corrispondono a tre Notti, tre Incontri, una Notte ultima e una Fine. L’eroina del poema, la femmina-re, cavalca un Cavallo-Vortice, solca i mari azzurri su un Vascello di Fuoco, guida un esercito; il suo innamorato, seppure figlio di zar, è un cantore, un uomo sciocco e fragile, che ama solo la gusla (n.d.r. antico strumento musicale a corde); il loro amore è impossibile, infelice, anche per l’incantesimo operato dal servo-stregone mediante uno spillone insanguinato: non appena la principessa guerriera si avvicina allo Zarevič il ragazzo cade nel sonno.
Lo spunto è una delle fiabe inserite da Aleksandr Afanas’ev nella sua raccolta di racconti popolari russi (Narodnye russkie skazki), con la quale lo studioso si proponeva di rendere disponibile una selezione del materiale leggendario della tradizione; fiabe tramandate oralmente e mai date alle stampe, analizzate nel loro nucleo potenziale primitivo, mistico ed epico. Marina ricevette il testo in dono nel 1916 da Osip Mandel’stam (altre fonti riportano che lo ricevette da amici pietroburghesi ma lo volle poi condividere con lui) e ne rimase affascinata.
Nella Principessa guerriera Cvetaeva sembra amalgamare tali suggestioni con altre provenienti dall’epica classica, accordandole al suo sentire: l’amore è distanza, tensione, assenza; un amore perennemente fuori tempo, sublimato nel tragico.
Sullo sfondo e ai margini di questa dialettica, al termine del poema troviamo un tema politico: la rivolta del popolo, esasperato dalle privazioni, contro lo zar dissoluto e tiranno. Anche questo tema galleggia però in una cornice astorica, e prende più le tinte di un racconto allegorico e apocalittico che non di una testimonianza documentale o di una affiliazione a qualche ideologia.
Marina scrisse il poema nel 1920. Era rimasta a Mosca da sola, con due figlie, il marito era arruolato al fronte con l’Armata Bianca, contro i bolscevichi. Sono le vicende che ben conosciamo da Il dottor Zivago, sono i tempi incerti e cupi della guerra civile.
Proprio in quei giorni di furore creativo e di alienazione, la figlia piccola, Irina, abbandonata in orfanotrofio, morì di stenti, ignorata da una madre apparentemente obnubilata, farneticante, i cui pensieri conosciamo da alcune lettere e taccuini successivamente ritrovati.
L’edizione di Sandro Teti riporta il poema con il testo originale a fronte, e questo permette – al letterato russofono – di avere un’idea delle prodigiose dialettiche, dei geometrici intarsi fonico-semantici che Cvetaeva mette in campo nella lingua madre, nonché di apprezzare la sapiente traduzione di Rea.
Tradurre Cvetaeva è un terreno impervio, sia per la ricchezza lessicale – che attinge ai registri del mondo fiabesco, della canzone popolare, dell’epica classica, dell’universo biblico, esplorando a un tempo i territori del più intimo lirismo – sia per il retaggio musicale dei suoi testi, dove cadenza, assonanze, rime, ostinazioni fonetiche sono parte integrante del messaggio dell’opera, che è a sua volta tensione irriducibile, continua, alla penetrazione del reale. Così fu per Majakovskij, per Pasternak, per Chlebnikov e, ancor prima, per Blok. Ma in Cvetaeva questa ricerca sembra raggiungere apici ineguagliati, in cui il senso si fonde al suo suono in modo quasi soprannaturale, e il significante coincide con il significato.
La brava Marilena Rea sceglie, in questo, di ripercorrere il difficile cammino di Marina, di rinnovare “la vittoria sull’elemento grezzo” (come Zveteremich amava dire) che porta alla piena essenza della materia poetica, alla perfetta risonanza della parola, ma in un altro codice linguistico: l’italiano. Rea abbandona in gran parte le rime prediligendo la metrica, cercando di ricreare nella nostra lingua il fremito che la poetessa aveva impresso ai suoi versi. Un’impresa notevole, considerando l’alternanza delle prosodie e della statura linguistica passando da un personaggio all’altro, e il fluttuare delle atmosfere da epico-rapsodiche, a folkloristiche, a solenni; la canzone gitana in un lampo diviene suggestione aulico-biblica o colloquio triviale, e la tetrapodia trocaica dell’epos militaresco vira al verso irregolare del cantastorie, dello strillone da fiera, secondo le sezioni.
Cvetaeva, in questa e nella gran parte delle altre sue opere, manifesta la vocazione a evitare le facili musicalità, i vuoti e pacati lirismi per trafiggere la realtà con penoso impegno, conducendo una continua dialettica persino con sé stessa; il senso del testo, afferrato con la ritmica, le sonorità, le scelte lessicali, è quello che deve esprimere la storia, l’epoca, l’assoluta sostanza. Esprimere il vero è il dovere e la causa prima della sua poesia.
“Il poeta – da lontano comincia il discorso; del poeta – lontano porta il discorso
[…] Poiché il cammino delle comete
è il cammino dei poeti: bruciando e non scaldando,
strappando e non coltivando – esplosione e scasso –
il tuo sentiero crinieruto, storto,
non è previsto dal calendario!”
(n.d.r. Il poeta, dal ciclo: Dopo la Russia, aprile 1923, traduzione di Pietro A. Zveteremich)
Della serietà di questo gioco, della sua esiziale pericolosità, Marina ebbe modo di rendersi conto nel corso della vita: l’ossessione per la purezza dei concetti e del linguaggio, l’orgoglio di donna vitale, autodeterminata, il disprezzo per la mentalità borghese, per i facili profitti e le paure, insieme alla difficile situazione politica che attraversò la sua patria e l’intera Europa nel corso dei decenni della maturità artistica, la portarono a essere spesso incompresa, messa al bando, esiliata, ignorata, perché politicamente invisa e letterariamente ostica. Ma questo non la dissuase mai dal suo ruolo oracolare, dal trasfondere la sua fatale comprensione delle cose, il suo furore, la sua radicale abnegazione in una assoluta intuizione e riscrittura poetica del tutto.
La sua biografia (l’esilio, la povertà, l’isolamento e infine il suicidio) appaiono il correlativo oggettivo (le conseguenze ultime) cui la sua postura eversiva la conduceva inesorabilmente. Trattavasi però – sia ben chiaro – di un’eversione collaterale, tutta personale, che Marina non volle mai identificare né con i coevi moti rivoluzionari politici né con le avanguardie artistiche che la lambivano, ma piuttosto con la professione di un’indipendenza morale profonda che aveva a che fare ancora una volta con la verità della sua carne.
“Giovani e vecchi, non giudicate!
Questa fiamma da un corpo
a un altro deve passare
o rischiamo di andare a fuoco.
Lo zigano ha le stelle,
il tiranno – le guerre,
il nobile – l’onore
noi donne – la passione.
Sangue che ulula come lupo,
Sangue che infuria come drago,
Sangue che un dolce incarnato
da baciare – ci fa desiderare!”
Così Iosif Brodskij:
“In Cvetaeva non c’è nessuna ribellione, Cvetaeva è una radicale impostazione del problema: La voce della verità celeste contro la verità terrestre. […] Cvetaeva arriva fino al limite estremo, anche se sembra si lasci trasportare. Proprio come gli eroi di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. […] Cvetaeva è veramente il poeta russo più sincero, ma è una sincerità, questa, che si pone prima di tutto sul piano della musicalità, come quando si grida di dolore”.
Se la complessità è ciò che più somiglia alla vera essenza delle cose, è pur vero che essa porta in sé un peso specifico tragico, che è motore e insieme ostacolo all’emergere. L’opera di Cvetaeva è in gran parte disponibile in raccolte, frammentate e semplificate, mentre molta altra parte di essa – in forma originale e integrale – è tuttora inedita in Italia. Così Boris Pasternak nella sua autobiografia:
“Nella vita e nell’arte la Cvetaeva aspirò sempre, impetuosamente, avidamente, quasi rapacemente, alla finezza e alla perfezione: e, nell’inseguirle, si spinse molto in avanti, sorpassò tutti […] Oltre al poco che ci è noto, essa ha scritto una quantità di cose che da noi sono ancora sconosciute: opere immense, tempestose…La loro pubblicazione segnerà un grande trionfo e una rivoluzione per la nostra poesia…”.
Marina, figlia di un filologo e di una pianista (la madre era allieva di Arthur Rubinstein, una tedesco-polacca torva e dispotica ma che le insegnò “la Musica, il Romanticismo, la Germania” secondo le sue stesse parole), non poteva che avvertire fino in fondo la sacralità della parola, il suo peso etimologico, completando questa concezione con un sentire fonico del creato. Frequentava allo stesso modo musicalità e consapevolezza semantica, perseguiva una ridistribuzione continua dei significati sugli elementi del verso, righe, parole o minime unità sillabiche, finché la pagina poetica non diveniva una partitura. In Cvetaeva risuonano una Russia antica e oscura, una vitalità eversiva dai timbri alti e tesi, un oltre e un altrove rivelati, tra sussulti e precipizi di stili e temi che le meritarono l’appellativo di poeta verticale.
Torna alla mente Amelia Rosselli, quando scriveva:
“Una problematica della forma poetica è stata per me sempre connessa a quella più strettamente musicale, e non ho mai in realtà scisso le due discipline, considerando la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono, e il periodo non solo un costrutto grammaticale ma anche un sistema…”.
Ma mentre Amelia fu infine attratta dalla regolarità virtuosa, dalla disciplina del verso, studiando nel dettaglio i sonetti delle prime scuole italiane e inseguendo la perfezione formale, i versi di Marina sono virtuosi su più livelli, usano maliziosamente forme metriche e lessicali, scontrano le etimologie con le assonanze, somigliano a una esplorazione acustica e filologica assolute. Ma, a prescindere dalle forme scelte, Amelia e Marina hanno lo stesso cruccio:
“La realtà è così pesante che la mano si stanca, e nessuna forma la può contenere. La memoria corre allora alle più fantastiche imprese (spazi versi rime tempi)”.
(n.d.r. da Amelia Rosselli, Spazi metrici, 1962). Teoria formale a postfazione di Variazioni belliche.
La sensazione, leggendo Cvetaeva, è quella di un poeta guidato da qualcosa che va oltre l’ispirazione: da incanti atavici, da visioni non addomesticabili, che pretendevano di essere espresse. “Non odo le parole ma una sorta di muto cantare dentro la testa, una sorta di linea sonora – da un accenno a un ordine” ebbe modo di affermare a tal proposito. Nella poesia di Cvetaeva ogni frammento grafico pare avere autonomia nell’evocare significato, il testo è separabile in unità autonome minute – sillabe, fonemi – che tendono alla pura manifestazione acustica dell’oggetto nel suo palpitare.
Sulla personalità tumultuosa di Cvetaeva molto è stato detto e scritto: madre lunatica e incostante, mutevolmente affettiva, amante a volte impudica, promiscua, a volte cerebrale, avida di spasimi e assenze (gli amori epistolari con Boris Pasternak, con Rainer Maria Rilke), gelosa dei suoi spazi creativi, ossessionata dall’impulso di scrivere, dalla necessità di folgorare ed essere folgorata (“trovate parole che mi incantino: credo soltanto agli incantesimi”), Cvetaeva non era una creatura domestica, familiare, ma una guerriera eroica e stonata, una ribelle perennemente obliqua, fuori rotta:
“Se ti sposassi un giovinotto –
frigna la balia ai suoi piedi –
e cambiassi quest’abito orrendo,
e su una culla, piena d’amore,
tra fascette e pannolini,
di notte, invece di bisbocce,
cantassi lunghe filastrocche…”.
“Allora la Vergine batté il piede:
“Tu sei una balia, io – uno Zar-Demonio!
Che diavolo ci faccio con le fasce?
Il mio scopo è fare la guerra,
di altri scopi posso fare a meno!”
Nel poema La principessa guerriera c’è tutto questo, c’è tutto di Cvetaeva: l’elemento ancestrale, l’epos, la dialettica maschile-femminile, la vitalità sfrontata e solare dell’amazzone, il mondo ctonio dell’incantesimo, la magia iridescente della parola-fiaba che incanta il poeta; e infine, l’amore incompiuto, il principio vitale destinato a non realizzarsi: “un passarsi accanto”, un eterno sfiorarsi senza raggiungersi, in cui l’anima stessa vuole alimentare il suo continuo ferirsi, la struggente “tragedia del mancarsi”, e nel dolore della scrittura, nell’arte purissima della poesia, epicamente deflagrare.