Torna nelle librerie italiane l’autrice franco-senegalese Marie NDiaye con La Strega, pubblicato in lingua originale nel 1996 e proposto da Prehistorica Editore nella traduzione di Antonella Conti. Una scrittrice e drammaturga ancora poco conosciuta nel nostro paese, nonostante sia una delle voci più significative della letteratura francofona contemporanea, vincitrice del Prix Femina nel 2001 e del Prix Goncourt nel 2009. Da sempre attenta alla condizione femminile, da un punto di vista sociale quanto politico, in questo romanzo si serve di un elemento magico-mistico per raccontare la storia di una famiglia e in particolare delle sue protagoniste.
«Quando le mie figlie ebbero raggiunto l’età di dodici anni, le iniziai ai poteri misteriosi», annuncia la narratrice, Lucie, nell’incipit. Le donne della sua famiglia possiedono tutte, in diversa misura, l’arte della divinazione, che viene tramandata in tenera età di generazione in generazione. Alcune la rifiutano, ne è un esempio la madre di Lucie, caparbiamente aggrappata all’illusione di un’esistenza normale; altre invece la abbracciano appieno, come le figlie Maud e Lise. Nel mezzo, Lucie: non nega la sua abilità ma ne constata la debolezza, generata forse dalla remissività del suo carattere, tanto da definirsi una “strega un po’ fallita”. Bloccata in una quotidianità senza slanci nella provincia francese, sente il bisogno di compiacere gli altri, anche se in cambio riceve solo disprezzo o noie. Si ritrova a gestire la fuga del marito Pierrot, i cambiamenti repentini delle ragazzine, una vicina di casa invadente e il rapporto mai davvero risolto tra i genitori divorziati.
Gli uomini, d’altro canto, fingono di non conoscere o mal tollerano questo dono. Mariti, padri e patrigni vengono tenuti lontani dall’insegnamento dei saperi, reagiscono con rabbia e fastidio di fronte alle lacrime di sangue che segnalano una visione del passato o del futuro. Si ingegnano invano per migliorare la loro condizione sociale, nel costante desiderio di raggiungere uno status superiore e di accumulare denaro. Davanti all’incapacità di controllare le donne e il loro destino, arrivano quasi a perdere la ragione.
L’espediente magico consente a NDiaye di esplorare l’oppressione patriarcale e la ricerca della libertà di espressione femminile. Lucie spiega che, attraverso la divinazione, tenta di trasmettere a Maud e Lise “l’indispensabile ma imperfetta potenza di cui erano sempre state dotate le donne della mia stirpe”. Le figlie dimostrano un potere più forte di quello materno, così conquistano un’indipendenza inedita per Lucie; la loro nonna, malgrado la sua presa di posizione, non riesce a trattenere fino in fondo la necessità di sfogare la propria natura quando si confronta con il ricordo delle ingiustizie subite. Se la suocera di Lucie incarna un modello di donna vincolato alle consuetudini, la cognata Lili escogita un modo per sbarazzarsi di ogni aspettativa sul suo corpo e sulle sue decisioni, contro la disapprovazione generale. L’universo dei volatili – tra corvi, cornacchie e piumaggi – diventa il simbolo di questa volontà di liberazione.
È una scrittura equilibrata, quella di NDiaye, rigorosa nel rifiutare ogni eccesso. Certe scene non mancano di teatralità nei movimenti degli attanti e nei dialoghi, tra le righe emerge un’ironia a tratti corrosiva, né è assente il gusto per l’assurdo, però ogni ingrediente è misurato alla perfezione, per creare un intreccio impeccabile nel restituire la realtà in cui ancora, dolorosamente, abitiamo.