Dopo Il precipizio dell’amore. Solo appunti di una madre (Mondadori, 2021), una storia personale piena di pathos che le è valsa la nomina di Cavaliere al Merito della Repubblica, Mariangela Tarì torna con un nuovo romanzo dedicato alla realtà familiare. Protagonista di Terra Madre è Emma che racconta in prima persona la sua infanzia a Taranto in un “tempo contento”, l’allegra giovinezza e poi la fase adulta a Verona (il matrimonio con Martino, la nascita del figlio Nicola), con la “malattia della terra” d’origine e dell’uva che incombe assieme a quella della madre Anna, tra i veleni dell’Ilva (“Nome latino dell’isola d’Elba da cui si estraeva il ferro. Nome sinuoso. Ingannatore”) e lo scricchiolio dell’azienda di famiglia, di “masseria Favale” nel “periodo infinito della felicità”. Il tema principale del romanzo – diviso in cinque grandi parti, precedute da un prologo e scheggiate in sessantatré rapidi capitoletti – è la nostalgia stricto sensu (“Mi trema la pelle dalla nostalgia, sempre”), capace di risucchiare all’indietro esistenzialmente la donna, di esibire “piccoli fori” legati dall’amore, di unire senza stringere. È la nostalgia, talora selvaggia, di chi lascia la propria “terra madre”, appunto, per emigrare al nord: esattamente com’è accaduto nella vita della scrittrice che però trasfigura allegoricamente in Emma le sue vicende biografiche, quasi costringendo il personaggio a vestire una muta differente, fatta di confessioni inconfessabili e sconvolgimenti emotivi.
Ecco l’interessante prologo del libro: “Mi sono chiesta per molti anni che cosa sarebbe stato di me se non avessi ceduto al desiderio di mia madre di sapermi migliore di lei, al sicuro. Ho avuto molto tempo a disposizione per rileggere il passato e comprenderne i dettagli, quelli che svelano i piccoli segreti, quelli che ti dicono che in realtà il male ordinario della vita ti è stato nascosto. Senza la parte scura però non si comprende davvero il mondo. Ecco, io per tre anni ho riflettuto sui dettagli, un po’ per perdonarmi e a tratti perché costretta. È una vera maledizione non poter raccontare proprio a mia madre quello che adesso finalmente conosco, non poterle fare domande, sapere che il nero che ci ha fatto soffrire entrambe non potrà evaporare in un abbraccio con un sospiro. Lei ha avuto in sorte la stessa dimenticanza di mia nonna, forse un premio per la vecchiaia, se vogliamo trovare una nota positiva. Per chi invece ha annotato tutto nei ricordi, restano i dilemmi a cui nessuno risponderà, e rimangono l’infanzia felice e la giovinezza spensierata impastate con la verità”.
Come ogni puro intendimento mnestico, il percorso monologante di Emma è innanzitutto un viaggio alle origini, un nostos interiore: non soltanto per agguantare i frutti purificati del passato (à la Nerval) o per delineare i tratti salienti di una storia collettiva – la realtà tarantina dagli anni Settanta a oggi –, ma in particolar modo per affermare ulissiacamente l’identità perduta negli stravolgimenti e nei travagli della società massificata. In buona sostanza, un itinerario etico e pedagogico che conduce Tarì, i suoi personaggi e il lettore stesso a ritrovare gli emblemi più vivi di un’umanità forse scomparsa, sicuramente da ricostituire, che riesca ancora a brillare, pur nella lontananza, di “schegge di stelle e polvere di minerale”.