Erano gli anni Sessanta quando una bambina di pochi mesi venne abbandonata a Villa Borghese, a Roma, da una giovane mamma che non riusciva a sostenere la pressione sociale che le derivava dall’essere fuggita dal tetto coniugale per andare a vivere con un altro uomo, anch’egli sposato. Dopo l’abbandono, la donna e il suo compagno decisero di farla finita, gettandosi nelle acque del Tevere. Il caso di cronaca occupò le pagine di tutti i giornali. La bambina venne adottata e crebbe nella nuova famiglia soprattutto in relazione con la nuova madre perché, per il colmo della sfortuna, dopo pochi anni, il padre adottivo fu colto da una malattia e morì.
Quella bambina si chiama Maria Grazia Calandrone, è poeta e drammaturga, scrittrice nonché conduttrice radiofonica. Qualche anno fa, ha scritto un libro intenso e poetico dal titolo Splendi come vita che solo per poco non ha raggiunto la somma dei voti per concorrere alla cinquina del premio Strega. Una storia concentrata principalmente sul rapporto tra lei bambina adottata e Ione, madre adottiva. Forte della convinzione che “le parole sono la parte più concreta della materia”, la scrittura di Calandrone si infila nelle pieghe delle storie dei protagonisti, ci trasferisce la sensazione dei momenti felici e di quelli più difficili non di rado a carattere conflittuale. Al termine della narrazione, Maria Grazia trova un biglietto lasciato dai genitori biologici. Vi era scritto “la lascio alla comprensione di tutti”. Ma a causa dell’inchiostro sbiadito, molti vi lessero “compassione” invece di “comprensione”. Ecco allora emergere un gancio indistruttibile: d’ora in avanti la compassione diventa, per l’autrice, la poetica della scrittura. Su queste parole e su queste convinzioni si fonda la struttura del nuovo lavoro che oggi vediamo pubblicato.
Qui si va al cuore del problema: Calandrone avvia la ricerca della mamma biologica. Viaggia, raggiunge i luoghi dove ha vissuto, segue le tracce avute dalle molte persone dopo la pubblicazione del primo libro. Cerca negli archivi delle stazioni di polizia, incontra sindaci, dialoga con gli abitanti il paese d’origine della madre. Per ogni traccia individuata, per ogni frammento di prova riesce a non rimanere imprigionata dalla cronaca della vicenda. Si ferma e riflette e, dove può, ricorda. Ecco che i frammenti e i vari documenti rinvenuti diventano così occasione per far rivivere la madre. Quando fugge, quando sogna, quando teme e si nasconde.
Dove non mi hai portata è un libro poco convenzionale, duro per molti tratti, in cui il dato materiale rimanda con crudezza alla sofferenza che quella donna e il suo compagno furono costretti a patire, il racconto non rinuncia a spunti poetici e commoventi che non addolciscono ma esaltano gli aspetti drammatici. “Come?” è l’avverbio interrogativo che ci guida nella lettura e nella ricostruzione dei fatti. “Perché?” è invece il termine che offre chiavi di volta nella narrazione. Calandrone non ci restituisce solo le modalità di una storia, ma, soprattutto nella parte finale, si spinge fino a chiedersi il vero motivo di alcune scelte. Quello che un investigatore difficilmente si domanda è appannaggio di una figlia che cerca la madre. E la trova.