L’antefatto è fornito da una triste vicenda di cronaca. Alla metà degli anni Sessanta, una giovane donna del Molise, Lucia, sposata con un uomo che non ama, fugge dal marito perché si innamora di Giuseppe, imprenditore di Nettuno di quasi trent’anni più grande di lei. Anche Giuseppe è sposato. Ma non esita, forte della passione che prova per Lucia, a fuggire con lei. A nascondersi e a cercare altri luoghi per nuova vita. Dopo un breve soggiorno milanese, i due innamorati tornano a Roma. Intorno sentono crescere la pressione del disprezzo sociale in un paese dove il loro gesto costituisce addirittura un reato penale. Grave, per giunta.
Da quell’amore nasce una bambina. Ma Lucia e Giuseppe ormai sono dei paria, dei reietti. Per loro la situazione è insostenibile, per questo decidono un gesto definitivo. Lucia avvolge la bimbetta in una coperta e l’abbandona in un luogo di frequente passaggio, a Villa Borghese. Insieme scrivono una lettera all’Unità contenente le indicazioni utili a far ritrovare la bambina affinché qualcuno possa prendersene cura. Poi si suicidano, gettandosi nel Tevere.
Nelle stesse ore Giacomo, ex operaio divenuto giornalista e parlamentare del Partito Comunista Italiano, sta partecipando a un convegno e nota la bimba mentre alcuni passanti la accudiscono in un bar poco distante. Il giorno dopo la foto della piccolina appare sul quotidiano e Giacomo decide, in accordo con la moglie Ione, di adottare quella creatura di pochi mesi.
La bambina si chiama Maria Grazia Calandrone, e oggi è una delle potesse più apprezzate e seguite nel panorama culturale italiano. Madre e scrittrice, di lei ora possiamo leggere il suo primo romanzo. Bellissimo, a dirla tutta.
Chi pensasse di leggere, in Splendi come vita, una sorta di elaborazione storica riguardante i genitori naturali dell’autrice, si sbaglierebbe. Chi cercasse la ricostruzione di un dramma (che è anche specchio dei tempi) in termini culturali e politici, farebbe un buco nell’acqua. Maria Grazia Calandrone ha imparato a trovare in sé stessa la forza per guardare avanti e affrontare la vita. Con lo sguardo sensibile ed essenziale della poesia. Con compassione. La bimba, che tutti potevamo avvolgere in una melassa di comprensione paternalistica, si sottrae parzialmente al nostro sguardo e, a sua volta, sceglie di guardare. Ci restituisce la forza di una umanità spesso dolente ma sempre autentica e viva. Il padre di Maria Grazia muore quando lei ha solo undici anni: per questo si ritrova a crescere sola con la madre, ben consapevole fin dai primi anni d’essere stata adottata.
Il libro si concentra soprattutto sul rapporto fra madre e figlia. Argomento assai scivoloso di questi tempi, che vedono le connessioni fra genitori e figli spesso al centro dell’attenzione di moltissimi (troppi, forse) scrittori. Forte della convinzione che “le parole sono la parte più concreta della materia”, la lirica di Calandrone si infila nelle pieghe storiche dei protagonisti, ne estrae il succo vitale e lo consegna al lettore. Nel libro la “pagina piena” quasi non esiste. Ogni episodio, ogni sensazione, ogni immagine vengono raccontate in flash poetici che usano la prosa per dar corpo alla dimensione narrativa, mai soccombendo ad essa.
Maria Grazia cresce. A Roma si impegna nelle lotte studentesche entrando in contatto con episodi duri e spiacevoli. La condizione di adottata per lei non è un’ossessione (è più preoccupata per la guerra in Vietnam), legge moltissimo, ama il cinema e frequentare assiduamente lo zoo. Ricorda l’agonia, la morte e il funerale del padre, la cui ultima volontà è stata la richiesta di scrivere Comunista sulla tomba.
Ione, la madre adottiva, poco dopo inizia a perdere la propria lucidità. Pettinando la figlia dice che i riccioli – Maria Grazia ne ha moltissimi – sono una “malattia del capello”. Tra ironia e dramma, il racconto ci mostra una madre sempre più lontana e sempre più nevrotica. Sorprendentemente, lo sguardo lucido ma tenero e partecipe della bambina corrisponde a quello della scrittrice. Per la piccola iniziano le peripezie negli istituti retti da monache e da cui viene puntualmente espulsa. Maria Grazia viene accusata di essere “un fiume senza argini”. Intorno a lei la cronaca consegna le notizie delle catastrofi ecologiche: Diossina, Chernobyl.
I conflitti con la madre non si placano anche se sono intervallati da momenti di gioia. Al termine della seconda parte del romanzo appare la nonna, figura saggia ed equilibrata. Ma ben presto, ancora una volta Maria Grazia e Ione (malata) rimangono sole. Maria Grazia disegna e scrive poesie, nella sua mente e nel suo cuore sono impresse le immagini sorridenti delle persone che l’hanno amata, compresi coloro che hanno perso il senno.
Convinta in modo fermissimo sull’importanza delle parole, Maria Grazia Calandrone porta a termine il suo romanzo (prosa lirica, in realtà) pensando anche al compimento di una missione. Quando venne ritrovato il biglietto di commiato, scritto a mano dai genitori biologici, una parola non era comprensibile. Il biglietto fu poi trascritto con la frase “la lascio alla comprensione di tutti”. Ma molti rimasero convinti che il termine non fosse “comprensione” ma “compassione”. Su questo secondo lascito Maria Grazia Calandrone prende la penna e scrive: la compassione è la poetica della sua scrittura.