La tradizione letteraria degli animali parlanti è notoriamente antica. Da Esopo a Fedro, da Flavio Aviano alle storie comiche e satiriche di epoca medievale sui costumi sociali dove i protagonisti sono personificazioni di bestie, da Jean de La Fontaine al Novecento, quando ha conosciuto una notevole reviviscenza (basti pensare a George Orwell, con la sua Fattoria degli animali, o alle Favole della dittatura di Leonardo Sciascia), numerosi narratori hanno sfruttato questo topos per comunicare contenuti morali e politici significativi. Nutrito anche il filone sul rapporto e il dialogo tra uomo e cane (a cominciare dall’omerico Argo, a Thomas Mann, a Jack London), con esemplari canini depositari di virtù e dotati di linguaggio umano (esilaranti quelli usciti dalla penna di Thomas Pynchon).
In questa lunga scia s’inserisce A spasso con il mago. Merlino e io, di Marco Tullio Barboni. Soggettista, sceneggiatore e regista, esponente della terza generazione di una famiglia di “cinematografari” (è figlio di Enzo, creatore dell’immortale saga di Terence Hill e Bud Spencer e regista dall’indimenticato Lo chiamavano Trinità, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario), Barboni è alla seconda prova narrativa, dopo il folgorante esordio di …e lo chiamerai destino (Kappa Edizioni, 2015), dialogo drammaturgico tra il conscio e l’inconscio di un personaggio. Anche questo nuovo “romanzo” si caratterizza per la struttura esclusivamente dialogica, con le battute tipograficamente diversificate (quelle dell’uomo sono rese in corsivo) per facilitare la lettura di questo tour de force linguistico, centrato sul rapporto simbiotico tra un uomo e il suo “bovaro bernese di sessanta chili” che “parla come Marcel Proust”, Merlino, tornato dall’aldilà a lenire il dolore dell’inconsolabile padrone (“amico” o “fratello maggiore” sarebbero definizioni più consone), per ammaestrarlo e indicargli la via durante una metafisica “passeggiata nelle infinite possibilità”, un “sogno lucido” che si profila come un autentico viaggio di formazione.
Grazie all’abilità maturata come sceneggiatore, Barboni padroneggia il dialogo, modellato sulla dialettica dell’identità e forgiato nella forma maieutica, con singolare inversione delle parti: qui abbiamo un Virgilio (figura espressamente evocata) sotto spoglie canine. Un dialogo che assorbe in sé descrizioni e scenografie, intessuto di citazioni che, in tipica modalità postmoderna, supportano trama e temi conferendo un’aura pedagogica e moraleggiante al testo: battute cinematografiche, detti e aforismi attraversano il racconto come un sistema arterioso, con un’attenzione al linguaggio tipica dello scrittore di razza.
Un dialogo che apre la narrazione ad altri personaggi, le cui storie concorrono a creare l’arazzo complessivo, un’umanità dolente e miope, succube di vuote credenze e accecanti pregiudizi.
Un dialogo, infine, che talvolta assume le forme di una seduta psicanalitica, dalle evidenti suggestioni junghiane, in tal misura che il racconto potrebbe spiegarsi come “uno di quei momenti in cui conscio e inconscio vanno a braccetto e danno vita alle creazioni più alte”.
Nel confronto-confessione tra un uomo e il suo cane che, con saggezza ultraterrena, conduce il suo amico negli affascinanti sentieri di un “mondo dove tutto è possibile”, si mette dunque in scena una sorta di pièce metafisica, che vira sul versante della favola e del fantastico. In questo “differente piano di realtà”, il narratore (o meglio, il co-dialogante, e con lui il lettore) ha “la possibilità di comprendere cose incomprensibili nella vita reale”, sempre che abbia la forza di “mettere da parte qualunque giudizio”, di “affrancarsi dalla programmazione” che gli è stata imposta, di assumere con coraggio “un nuovo sguardo”: “Se non lasci andare le tue credenze rischi di ripeterti all’infinito, Boss” ammonisce Merlino.
Ma la storia si può anche interpretare come metafora del romanzesco, del mondo narrativo il cui più autentico scopo è proprio osservare la realtà da una prospettiva inedita, rendere inatteso e nuovo l’ordinario e il consueto. Emblema del procedimento artistico, che scava nell’intimo delle cose e delle persone scardinando convinzioni e luoghi comuni per portare alla luce un’ombra di verità.
In questa ottica, la figura dell’artista si lega shakespearianamente a quella del mago. I richiami alla magia sono infatti espliciti e reiterati, a cominciare dal nome del cane, Merlino (“un nome, un destino”), dietro i cui ammaestramenti l’uomo è il suo apprendista, che interroga esistenze umbratili: “Osservo la mia dimensione da un’altra dimensione, proprio come farebbe un mago”. “Esatto: sei insieme il Dio del tuo sogno e un mago curioso”. E in questo gioco della magia (“in me mago agere”), Barboni, da animale di cinema, intesse l’incantesimo delle immagini peculiare della settima arte, evocata anche con continui riferimenti terminologici (“fermo immagine”, “didascalia”, “turning point”, “regia”, “comparsa”, “protagonista”, “interpretare un ruolo”, “commedia all’italiana”). Si tratta dunque di un testo consapevolmente metanarrativo, come dimostra anche l’uso della favola nella favola, con un racconto fiabesco dagli intensi echi morali, “Merlino e la farfalla”, una delle tante digressioni che costituiscono la struttura narrativa, ruotando attorno a ben definiti nuclei tematici (amore, amicizia, destino, apparenza contro realtà, sincronicità, il rapporto col divino e la sfera trascendente), resi con sapiente mescolanza di registri diversi: comico, ironico, drammatico, elegiaco, nostalgico, dubitativo.
Temi che si fondono in un calderone culturale ricco e fecondo, in cui sobbollono suggestioni dello stoicismo senechiano, echi di Giordano Bruno con l’amor che crea infiniti universi e mondi, le teorie fisiche degli universi paralleli e dei campi energetici, le tecniche del mantra e d’induzione, la psicologia junghiana e quella cognitiva ed evolutiva, la biologia della memoria cellulare: un composto amalgamato da una spiccata vis comica e da una carezzevole ironia. L’artificio letterario della voce post mortem non è insomma un semplice escamotage romanzesco; le risonanze metafisiche si allacciano vividamente alle vicende quotidiane, per comporsi in un insegnamento appunto maieutico, che giunge al nocciolo dell’esistenza: “l’Amore, l’unica salvezza”.
La storia si chiude con un finale struggente che lasciamo alla curiosità del lettore, degna conclusione emotiva e narrativa di questa “favola-non favola”, un libro delizioso e istruttivo che incarna l’aforisma di Baudelaire citato in coda: “Si deve voler sognare. E saper sognare”.