“Underground”, parola chiave della cultura alternativa di qualche decennio fa – promossa anche da una profezia del vecchio Duchamp: “The great artist of the future will go underground” – riposa oggi più o meno nella stessa nube semantica di espressioni come drop-out, freak, acid test, etc. C’era una volta il “mondo dell’arte” – chiuso, elitista, danaroso – e dall’altra quello delle sottoculture di strada, degli hot rod sgargianti, dei fumetti osceni e trasgressivi, della protesta anti-sistema. Il Mondo di Peggy Guggenheim e quello di Robert Crunch per oltre un ventennio non si sono parlati, poi qualcosa è cambiato a partire dagli anni Ottanta quando il terzo incomodo della pubblicità e della cultura pop ha spalancato le gallerie ai primi “graffitisti” (termine più in voga tra i galleristi che accettato nella cultura hip hop), e Saatchi, un decennio più tardi, ha rivoltato il mondo dell’arte come un calzino. Di lì in poi la scia del sottomondo e quella del sopramondo artistico si sono intrecciati, pur con tutta la differenza che nella post-modernità ha preso il posto dell’alterità, dando vita a una rete di scambi lungo le correnti ascensionali della tendenza e delle mode globali. Il caso di Banksy, icona street-art che può conciliare anonimato artistico e brand-managing da multinazionale tascabile, street credit, tempestività politica e quotazioni stellari, ne è solo l’espressione più nota e persistente. Non sorprende che anche la nostra esperienza estetica risulti oggi riorientata da una stimolazione continua, sospesa e anestetizzata dentro quella che appare a molti come un’unica bolla emergente di interconnessione mediatica.
Marco Teatro, artista e studioso di arti figurative e di cultura underground, dedica questo libro alla ricerca e alla documentazione di un punto di vista “non dominante” nel percorso dell’arte e delle mutazioni socio-culturali degli ultimi settanta anni. Dall’alba del beatnik alla psichedelia, dal punk all’“arte murale” dei writers, La guerra dei segni insegue i movimenti che, nati nel retrobottega della cultura di massa – hot rod, poster, fumetti, stickers, cover di dischi, ecc. – abbracceranno convintamente innovazioni e tecnologie a basso costo (fanzine, aerografo, fotocopiatrici, spray, stencil, poi internet) fino a farla scoppiare. Segni che affondano nel tempo e riaffiorano, reinventati in modo imprevedibile, strategie di guerriglia estetica che, di volta in volta, mirano a saturare le immagini fino all’inverosimile, come nei comics di Richard Corben, nelle tavole di ZAP o in Ranxerox di Tanino Liberatore, o a scarnificare le convenzioni grafiche e rappresentative con il minimalismo punk di Jamie Reid (si veda la cover di Never Mind the Buzzcocks), e oggi gli stencil bicromatici dei muralisti inglesi e dello stesso Banksy.
Se per la generazione post-punk il legame con la grafica e con la moda appare per certi aspetti connaturato alle sue origini, per la precedente generazione hippie-californiana l’approdo con il sopramondo è costituito soprattutto dall’abbraccio dell’emergente industria dello spettacolo, dalle cover di band amiche come i Jefferson o i Dead, dalle scenografie di registi come Spielberg o Ridley Scott, e sempre più spesso dai graphic novel, mano a mano che le fumetterie alternative chiudono o tirano a campare. Tra una celebrazione e l’altra, la loro effettiva assunzione nel pantheon creativo, anche in chiave museale deve attendere, diversi anni più tardi, la relativa affermazione di una tendenza come il Lowbrow americano, con solide radici underground, presentata a un mercato mainstream, nel frattempo diventato più aperto e ricettivo.
Diversamente, il rapporto tra la scena dei writers, e dei “muralisti” (detto per semplicità) e l’establishment artistico si apre ben presto a un gioco smaliziato e senza esclusioni di colpi tra street credit e credenziale galleristiche, comunità di quartiere e circuito privato, in un “mondo dell’arte” che alle soglie del nuovo millennio si presenta ormai del tutto mutato in senso liberista rispetto a pochi anni prima: completamente globalizzato, creativamente aperto e finanziariamente rilevante. Un movimento, quello del writing, del bombing e poi della street-art che vede in prima fila anche sulla scena internazionale almeno tre generazioni di artisti italiani. Non senza episodi di becero paternalismo istituzionale e di vera appropriazione, come testimoniano la parabola del bolognese Blu, “piratato” da un gallerista privato, o l’exploit del neo assessore milanese Vittorio Sgarbi che nel 2006, dopo aver dichiarato che i muri del CSO Leoncavallo erano la nuova Cappella Sistina, chiese agli artisti della mostra al PAC di cedere i diritti a un’asta televisiva, ovviamente di amici. Mostra, peraltro, a tutt’oggi con più visitatori nella storia del piccolo spazio milanese.
Attraverso decine di schede, La guerra dei segni offre una guida ben documentata (e illustrata) al lato visibile, ma spesso meno analizzato, di molti movimenti culturali e politici degli ultimi decenni.