Camminare su questa Terra lungo la frontiera confusa tra spazio e tempo senza mai smettere di modificare sia l’uno sia l’altro attraverso lingue e linguaggi è l’atto, solo apparentemente semplice, compiuto dalla nostra specie sin dalla sua apparizione – e il romanzo uno dei più raffinati dispositivi per raffigurare questa erranza inquieta. Ed è esattamente ciò che fanno Sara, diciottenne nata e cresciuta nell’hinterland milanese e suo padre Arun, che nel Norditalia ci è arrivato piuttosto rocambolescamente qualche decennio prima dal Bangladesh: tutto narrato in questo libro di Marco Rovelli, musicista, docente di Storia e Filosofia nelle scuole secondarie e autore, tra l’altro, di un altro romanzo sull’incontro, La parte del fuoco (2012, e dal 2020 per i tipi di TerraRossa) e alcuni reportage letterari tra le più interessanti prove di scritture ibride in italiano degli anni Duemila (insieme a quelle del compianto Alessandro Leogrande): Lager italiani (Rizzoli, 2006) e Servi (Feltrinelli, 2009).
Fedele a un’idea di ibridazione sin dal titolo – che rovescia il celebre La doppia assenza del sociologo algerino Abdelmalek Sayad che metteva a fuoco il controllo sociale delle migrazioni e le ragioni esistenziali profonde dei/delle migranti –, questo romanzo prende le mosse da tutto ciò che Sara e suo padre non si mai sono detti, soprattutto da quanto il genitore non riesce proprio a dire delle diverse vite che precedono la sua migrazione in Italia. Davvero troppa vita, pensa Arun, per una ragazza nata e cresciuta in Italia e distratta da amori e amicizie per lui imperscrutabili.
C’è un momento davvero lirico e insieme filosofico nel romanzo: Sara è al Museo di storia naturale nell’area di mineralogia e, attraverso il suo sguardo, la voce narrante riflette su quanto sia “stupido considerare la pietra come materia bruta, inerte, priva di vita: inorganica. E quanto meglio sarebbe se questa stupidità si aprisse allo stupore che disloca lo sguardo e vede la vita ovunque”. Ecco, vedere la vita ovunque è la ricerca esistenziale stessa di Sara: trovare tracce di vita per andare oltre il disseccamento imposto dallo scorrere del tempo, per saltare con leggerezza calviniana oltre i buchi della memoria creati dalle ferite e dal dolore dei ricordi del passato di suo padre, del suo tempo vissuto in Bangladesh, delle sue origini, Sara vuole ostinatamente (in)scrivere una storia nuova, cucire delle mappe in cui tutto trova un posto, un tessuto fatto di pezzi diversi, di rattoppi.
Rovelli ha scritto una breve storia naturale di personaggi in cerca di appartenenze: sociali (lavoratori poveri e nuovi ricchi), generazionali (i vecchi e gli adolescenti della generazione Z), culturali (italiani, bangladesi, pakistani, italiani del Sud, musulmani, cattolici, atei o tutte queste cose insieme) che attraversano trasversalmente uno spettro sociale irriducibile. Si tratta di appartenenze multiple, certo, ma anche di nessuna appartenenza: ovvero della ricerca di un’identità singolare, libera e forte, credibile perché unica. Verrebbe da dire che una storia così non poteva che scriverla un docente e musicista (dalle idee radicali) che guarda al mondo giovanile come il luogo da cui promanano nuove forme di vita: inattese e perciò, spesso, invisibili agli occhi di generazioni stanche che hanno attraversato il (loro) tempo senza ritrovare più alcuna collocazione, un tempo sfilacciato senza più sapere dove mantenere (o anche ripiantare) le proprie radici.
Che si tratti di un facchino bangladese o di un vecchio operaio siciliano o di una giovane donna di seconda generazione, la migrazione in questo romanzo è sia dato materiale e sia allegoria esistenziale di un gruppo di adulti che, nello specchio di una nuova generazione che non riescono a leggere, hanno perso il proprio spazio e il proprio tempo nel mondo. Solo attraverso un conflitto, e nuove politiche dell’affetto e dell’amicizia intergenerazionali, sarà possibile entrare in un nuovo mondo.