Il ritorno della guerra di Marco Mondini si conclude con l’amara constatazione di Norberto Bobbio che, poco prima della morte, lamentava come un’illusione durata troppo poco quella della pace incondizionata e di un mondo post-eroico in cui si erano cullate l’Italia e l’Europa, per un breve numero di anni, mentre sempre nuovi conflitti già le smentivano: la prima guerra del Golfo (1990-1991), la disintegrazione della Jugoslavia e l’assedio di Sarajevo (1992-1996), i massacri della Bosnia e del Kosovo. Già prima dell’invasione russa dell’Ucraina nell’inverno del 2022, già prima del genocidio di Gaza che ha insanguinato quest’ultimo anno, la violenza e la guerra erano state ben presenti intorno al nostro confortevole rifugio, per il momento ancora accettabilmente sicuro, e, mentre nel 2004 il Parlamento del secondo governo Berlusconi sanciva, in una generale indifferenza, la fine ufficiale in Italia del servizio di leva e dell’annosa tradizione del cittadino-soldato, i talebani prendevano possesso dell’Afghanistan e lo sconfitto Saddam Hussein si preparava all’imminente esecuzione. Poteva sembrare la fine di un’epoca, era invece l’inizio di un’altra: un’epoca amara che avrebbe smascherato tutta la precarietà delle nostre assennate certezze. Secondo il motto attribuito a Benjamin Disraeli non ci restava ormai che “hope for the best and for the worst prepare”.
La storia è tornata titolava “Time” nel febbraio 2022, mentre gli invasori russi varcavano il confine ucraino – e si volatilizzava definitivamente il sogno di un mondo demilitarizzato. Come scrive Mondini, la speranza in «un paradiso liberaldemocratico fondato sulla ricerca del benessere individuale in cui la difesa comune è stata sottratta agli obblighi dei cittadini, gli eserciti limitati alla prestazione di pochi professionisti e l’idea della guerra confinata in un passato di barbarie», insieme con il mito ipocrita delle “missioni di pace” o il miraggio della “guerra a zero morti”, tramontavano miseramente, mentre, volente o nolente, si profilava ancora la risorgenza, sotto una qualche nuova forma, dell’idealtipo giacobino della “nazione in armi”. Un’Europa composta di nazioni guerriere in fondo era da sempre il nostro sgradevole retaggio, e l’Italia, fin dalla sua fondazione nazionale, non faceva eccezione. Noi cittadini del presente stentiamo a riconoscere che per gli italiani del passato l’esperienza della guerra era legittima (in certi casi addirittura doverosa o naturale) e non ci rendiamo conto di quanto le nostre ultime generazioni siano state fortunate per questo cambiamento di prospettiva. Secondo Mondini, «Il fatto che si parli indifferentemente di ‘violenza’ per il terrorismo politico degli anni di piombo, l’illegalità dello squadrismo fascista o l’esercizio delle armi al servizio dello Stato di diritto, testimonia efficacemente la confusione che regna anche tra coloro che i fenomeni sociali dovrebbero studiarli».
E così le più o meno recenti “operazioni umanitarie” del soldato italiano, quando sono finite male hanno prodotto un trauma generale nel paese: i tre caduti di Mogadiscio nel 1993, o i diciassette di Nassiriya, in Iraq, nel 2003, vennero celebrati in una «Repubblica del dolore che piangeva delle vittime, non (in) una nazione addolorata e fiera che si stringeva attorno ai propri guerrieri caduti. […] Il popolo delle vittime, è stato scritto, ha ucciso il popolo degli eroi». Oggi – purtroppo viene naturale aggiungere – si respira ormai un’altra aria, si varano già piani straordinari di finanziamento delle Forze armate e da più parti si propone di ripristinare la coscrizione obbligatoria, l’Unione Europea proclama la necessità di una nuova economia di guerra. Il nostro destino marziale, ahimè, è un peccato originale irredimibile.
Così Mondini, di capitolo in capitolo, ripercorre, con dovizia di particolari, il non proprio brillante curriculum bellico nazionale, poco brillante essenzialmente per due ragioni: perché perdiamo sempre – per carità, con onore, almeno presunto – e perché combattiamo, è giusto precisarlo, solo guerre di aggressione. Dalle catastrofiche esperienze di Custoza e Lissa, nella cosiddetta Terza Guerra di Indipendenza del 1866, vinta dai nostri alleati prussiani e persa da noi, al preteso riscatto coloniale che aggiunge Dogali nel 1887 e Adua nel 1896, all’elenco delle nostre più umilianti sconfitte (i neri ce le suonano, che vergogna !), dalle “gesta d’Oltremare” della guerra italo-turca nel 1911 in cui ci accaparriamo faticosamente e inutilmente la Libia, al tormentato intervento del 1915 nella Prima guerra mondiale, con l’onta di Caporetto nel 1917 e il sanguinoso tripudio finale di Vittorio Veneto. Mordini evidenzia molto chiaramente la costruzione strumentale del martire, il caso di Cesare Battisti per esempio, così come la liturgia del Milite ignoto messa in atto nel 1921: una strategia per compattare i nazionalisti contro i “vigliacchi”, gli “indegni” e i “rossi” e la prova generale di forza del nascente movimento fascista. Alle brutture dell’era fascista è dedicato infatti il capitolo successivo, 1935-1943, con le vittorie in Etiopia, grazie a una guerra di sterminio, e le sconfitte del corpo di spedizione mussoliniano inviato in Spagna a supporto di Franco (Guadalajara no es Abisinia… Italianos menos camiones y màs cojones… cantavano i Repubblicani sull’aria di “Faccetta nera”). Poi la Seconda guerra mondiale, in cui, alleati di Hitler, non siamo affatto gli “italiani brava gente” della classica, giustificatoria vulgata, ma aggressori, oppressori e fucilatori, esattamente quanto i tedeschi; un particolare questo sul quale anche i più obbiettivi testimoni e memorialisti letterari – Mario Rigoni Stern, ad esempio, figura fra le più eminenti – hanno sempre preferito sorvolare in nome dell’”espiazione” di El Alamein nel 1942 o di Nikolaevka nel 1943. Infine il riscatto e la purificazione della Resistenza, il sigillo di sangue posto sul fascismo, secondo Ferruccio Parri: una nuova e radicalmente mutata prospettiva sulla lotta e sul dovere di impugnare le armi. Secondo Mondini: «Nulla a che fare con l’uccidere o l’essere ucciso per imposizione o per un semplice ordine (magari sbagliato), marionetta senza autodeterminazione come nel “porco Regio”, quel vecchio esercito che si era disciolto per vigliaccheria o semplice inettitudine, panico o mediocrità, e di cui i combattenti di questa Italia diversa dovevano ora espiare il fallimento. […] Sacrificio e martirio avrebbero finito per essere parole d’ordine comuni a famiglie di resistenti anche molto diverse tra loro».