Inge Schönthal ha tre anni quando Hitler e Göring si alleano con Gustav Krupp, magnate (fra gli altri) del carbone, ferro e acciaio. I genitori, ebreo il padre Siegfried, ariana la madre Johanna Emma, già nel 1930 si ritrovano immersi in segnali premonitori non certo favorevoli. Johanna Emma, per tutti Trudel, è allarmata, cartelli espliciti sulle vetrine dei negozi e altri segnali ancora più inquietanti le suggeriscono l’idea di un possibile espatrio. A Ingemaus (“topolina”), come Trudel chiama la piccola Inge, viene impedito l’ingresso alla scuola tedesca perché “meticcia” di primo grado. La donna non trattiene la rabbia, impressionano i primi capitoli di questo libro dove Marco Meier descrive la combattività di Trudel verso gli incipienti soprusi delle persecuzioni razziali. Finire in una scuola ebraica vorrebbe dire avere poche speranze di vita viste le sparizioni di insegnanti ebrei che avvengono da un giorno all’altro. Impressionano i viaggi intrapresi, in diverse città e nei gelidi sguardi dei funzionari burocrati, per far valere i propri diritti e dunque trovare una vita scolastica (e in definitiva, una “salvezza”) per la figlia. Trudel combattente verso la rassegnazione del marito, che sembra non accorgersi della minaccia nazista: migliaia di maschi arrestati, e l’odore delle fiamme che si mangiano sinagoghe e negozi ebrei. Trudel riesce a salvare il marito, fra mille peripezie condotte con ferrea volontà, e a cominciare un’altra vita. E Inge, che si sente tedesca, si chiede cosa c’entri con lei questa assurda divisione fra ariani e ebrei. Lei ama il mare, a nove anni con i suoi compagni di scuola, ne vorrebbe assorbire tutta la capacità di guarigione. Ma è il 1939, la Germania ha invaso la Polonia.
Iniziano gli anni, dalla guerra in poi, di Inge a Gottinga, nella caserma dove vive il patrigno, dopo la fuga del padre fuori dai confini tedeschi. Una tappa di quel carattere spavaldo che la porta ad Amburgo, città non proprio dietro l’angolo ma raggiunta tramite l’uso dell’autostop. È il 1950, la ragazzina che non poteva stare ferma ha già visto gli inglesi e i profughi, arriva l’amica del cuore e gli scrittori americani che erano stati proibiti dal regime. E riaprono i cinema. Vivere ad Amburgo nello studio-appartamento di Rosemarie Pierer che la ospita cambia l’esistenza di questa ragazza ritrovatasi con una borsa, una valigia e una bicicletta sulle rive dell’Alster. Impara l’impiego corretto delle apparecchiature fotografiche, e il carattere la spinge a volere sempre di più, a cacciare per le strade volti utili a crearsi un album di scatti da presentare a qualche Redazione. Cosa che ben presto accade entrando per la prima volta negli uffici di “Constanze”, rivista femminile contrastante gli abituali cliché dell’epoca.
Meier racconta la figura di Inge, donna a cui è difficile resistere per l’acutezza di sguardo, l’assalto al suo tempo e l’ingegno impetuoso grazie al quale riesce a raggiungere le personalità più in vista dell’arte, della moda e della cinematografia. Instancabile viaggiatrice, in torpedone, e in auto, s’inventa ogni sorta di macchinazione per fotografare artisti e scrittori, da Picasso a Hemingway (il capitolo a lui dedicato dà il senso di come Meier ottenga, a distanza, il reportage su una fotoreporter a dir poco irresistibile), fino a raggiungere fotografi famosi come Avedon, Blumenfeld, Rawlings. Chi, se non lei, armata di Rolleiflex e enorme flash, poteva catturare in uno scatto la divina Greta Garbo che nessuno sembra riconoscere (ampio cappotto scuro, ballerine e tracolla) durante una passeggiata nella Fifth Avenue? Inge guadagna i suoi primi cinquanta dollari a New York vendendo la foto a “Life”. Dopo di che niente può fermare le esplorazioni di Ingemaus, macinando migliaia di chilometri in giro per il mondo. A lei, che ama il suo mestiere, non può mancare nel 1958 l’incontro con colui che l’anno prima aveva pubblicato in prima mondiale Il dottor Živago di Boris Pasternak. A una festa ad Amburgo c’è un tipo in un angolo, non attratto dalle cerchie, sigaretta in bocca e baffi scuri e occhiali con la montatura di corno. È Giangiacomo Feltrinelli, parlano per tutta la notte e non si lasceranno più. Erano gli “impacci della timidezza aggressiva” e la “totale incapacità di relax” ricordate da Arbasino, fra l’altro, ad affascinare Inge? Il destino di “due sistemi caotici” si compie. Il libro di Meier si chiude così: “Sta per cominciare un’altra storia”. “È arrivata Inge Feltrinelli”.