Ogni volta che leggo qualcosa dedicato a Hitler, soprattutto opere di fantasia, mi sembra che un frammento in più dell’enigma venga sistemato al posto giusto. L’ampia storiografia sull’argomento, che si poggia nel mondo sulle biografie di Ian Kernshow e di Joachim C. Fest, tradotte in ogni lingua, e La storia del Terzo Reich di William L. Shirer, è costituita da una costellazione di testi che hanno studiato ogni aspetto di Hitler e dell’esperienza politica a cui ha partecipato. Temi come lo stato sociale, la musica, le arti visive, il consenso, le scienze, l’organizzazione industriale, la psicologia, la letteratura, l’antropologia durante il nazismo sono trattati coscienziosamente da una miriade di testi rigorosi, ma è alla narrativa che spetta il compito di organizzare e comprendere l’immaginario del nazismo e le sensazioni che oggi ancora provoca in noi.
Esempi importanti del ruolo dell’immaginario nella comprensione e nella rielaborazione della figura di Hitler sono romanzi come Il castello nella foresta di Norman Mailer e Hitler di Giuseppe Genna, in cui storia e invenzione si avvinghiano in un inquieto sviluppo narrativo capace di provocare nel lettore un costante disorientamento. Gli storici degli Annales proponevano di cercare nella storia gli elementi problematici, rifuggendo all’idea anche solo teorica del raggiungimento di una qualche verità definitiva. Così è con l’enigma Hitler, una continua ricerca sulle fonti documentate a cui si stanno affiancando sempre più espressioni narrative che presentano e ripresentano domande su uno dei personaggi più inquietanti della storia umana. Se Mussolini e il fascismo italiano hanno potuto avvantaggiarsi di un progressivo alleggerimento delle loro responsabilità, a partire dalle necessità della Guerra Fredda fino al successo elettorale di questi giorni, Hitler e il fascismo tedesco continuano, bene o male, a essere marchiati come il male assoluto che si è espresso nella storia umana. Anzi sono diventati lo schermo di quel male generalizzato portato a termine dalle destre europee, ognuna con la propria specificità, che si è espresso fino al termine della Seconda guerra mondiale e che ha annullato le motivazioni economiche, il cinismo, gli opportunismi e le diffuse alleanze che consentirono al fascismo di dilagare e distruggere.
Per questo motivo credo che opere come il graphic novel di Marco Galli siano opportune se non fondamentali. Il “nido” in cui è ambientata la storia è la struttura del Berghof nel cui territorio era stato costruito il cosiddetto Nido dell’Aquila, noto in bavarese come Kehlsteinhaus, e da non confondere con la Tana del Lupo, che si trovava a Rastenburg, e famosa per il fallito attentato dinamitardo del nazista pentito Claus von Stauffenber. Hitler acquista Berghof con i soldi ricavati dalla vendita del Mein Kampf, ma la residenza e lo stesso Nido vengo ristrutturati e ampliati successivamente a spese dello stato tedesco. La storia di Galli quindi si svolge in un dei luoghi totemici di Hitler e del nazismo, ripreso nei filmini amatoriali che poi dilagheranno in ogni documentario, dove, davanti allo spettacolo delle pareti calcaree delle Alpi Salisburghesi, si svolgeva la vita mondana che accompagnava spesso il dittatore. L’opera era stata voluta da Martin Bormann, quando era segretario personale di Hitler, e conclusa nel 1938, ma la posizione troppo esposta alle incursioni aeree e, forse, la paura del vuoto di cui soffriva il Führer, fecero sì che fosse più frequentata la struttura principale del sottostante Berghof; Eva Braun, invece, vi trascorreva molto più tempo. Eva Braun e Bormann sono i principali protagonisti del graphic novel, mentre Hitler è spesso un’ombra, allucinato, in disparte, quasi una presenza che preme e opprime i presenti. Alcuni storici hanno avanzato la teoria del “cerchio magico”, ovvero di un numero ristretto di persone che per ambizione personale circondavano Hitler, disputandosene le attenzioni e riducendo i suoi contatti con gli altri collaboratori. In particolare Borman, diventato Capo della Cancelleria del Partito, succedendo a Rudolph Hess nel 1943, venne spesso accusato di avere attuato un consapevole isolamento di Hitler con lo scopo di manipolarlo. Solo Borman può consentire un colloquio con il Furher anche agli altri gerarchi.
La storia narrata e illustrata da Galli si svolge tra il 3 e il 7 giugno 1944, contemporaneamente allo sbarco alleato in Normandia, la liberazione di Roma, la liberazione della Crimea e di Odessa, l’offensiva sovietica contro la Finlandia alleata dei nazisti. Con l’apertura del terzo fronte la situazione militare è evidentemente disastrosa, le truppe del fascismo europeo sono in ritirata e si sta predisponendo la morsa attorno alla Germania. In questo clima, tavola dopo tavola, viene costruito il quadro allucinatorio di una impossibile vacanza in montagna. I personaggi che si avvicendano a cena o nelle discussioni moriranno quasi tutti entro un anno. Sono quindi già fantasmi, umani che stanno perdendo il loro spirito vitale, mentre si avvicina la cosa che più temono, il rendere conto del proprio comportamento. Sono tutti animali braccati destinati a essere inquadrati da un mirino telescopico e a uno sparo che li coglierà all’improvviso, ma senza sorprenderli, perché sono tutti consapevoli della morte.
Il racconto infatti si apre con una scena di caccia al cervo. Galli inizia la descrizione della vita di gruppo nella residenza con l’arrivo del medico Theodore Morell (nel libro è citato come Morel), un personaggio ambiguo e ritenuto da molti un ciarlatano, detestato per la fiducia che Hitler deponeva nelle sue cure e criticato per le sostanze che gli somministrava. Goering lo chiamava “il signore delle siringhe”. Studi pubblicati molti anni dopo rivelano che Hitler, nell’ultimo anno, alternasse anfetamine, oppioidi e ansiolitici, e Morell personalmente provvedeva a somministrare quanto riteneva fosse necessario al Führer per reggere una situazione sempre più disastrosa. Il dialogo che avviene tra Morell ed Eva Braun è emblematico. Storicamente i due si conoscevano da molti anni, perché Morell era il medico del fotografo personale di Hitler, Heinrich Hoffmann, presso il cui studio Eva Braun lavorava come commessa. Forse grazie alla loro lunga conoscenza i due si scambiano parole molto dirette che evidenziano al lettore che Hitler è arrivato al punto di rottura e le sue percezioni sono sempre più allucinate.
È questa la prima chiave di lettura de Il nido, la totale falsificazione della realtà in cui viveva la direzione del Terzo Reich. La menzogna evidente permea ognuna delle comunicazioni malate che i protagonisti si scambiano, e solo Blondi, il cane, sembra avere un rapporto sincero con il capo della Germania nazista. Quando Hitler, stanco, assuefatto, annoiato e forse disturbato dai commensali, si allontana dalla sala del ricevimento, Eva Braun propone di spegnere Wagner e di mettere il boogie… e l’élite nazista inizia a ballare. Ognuno di loro mente, nella condizione collettiva e davanti al Führer, ma tutti nel privato affermano la verità della sconfitta e l’avvicinarsi della fine. Le decisioni militari non sono condivise ma sono sempre accettate da tutti, portando alla morte milioni di persone. Galli ci mostra (ci dimostra con l’efficacia a cui solo la narrativa può arrivare) con i suoi disegni colorati, i tratti netti, le molte tavole senza parole, come il male venga concepito con rara semplicità, attraverso una decisione affrettata, forse anche indotta dai farmaci, all’interno di un palcoscenico esclusivo, dove si giocano scontri e incontri segnati da una psicologia deviata. È quella banalità del male individuata da Hannah Arendt, fatta di ossequio alla norma, rispetto della gerarchia, ma che Galli rende evidente come, nel cerchio paranoico dove Hitler è in realtà stato isolato, si stia recitando una tragedia in cui ogni personaggio mette in scena la propria mediocre interiorità abbeverata solo dalla gratificazione di essere al potere. Il cinismo assoluto è la cifra di questa coincidenza estrema tra esistenza e potere, e l’invenzione del fascismo teorizza per pochi eletti di realizzarsi nel dominio assoluto, incuranti della tragedia umana che si vive fuori da questi luoghi chiusi (il nido, la tana, il bunker).
In qualche modo, mentre leggevo Il nido, la memoria insisteva continuamente a riportare brandelli de I fisici di Friedrich Dürrenmatt, per la capacità di evocare anche il grottesco all’interno di una struttura formalmente allucinatoria, ma il cui sostrato nascosto è, invece, basato su un’altra realtà e altre regole. Il questo caso il grottesco è l’unica espressione possibile per l’aridità del sogno fascista, in cui proprio gli esseri più deprimenti vivono sogni di superomismo che giustificano il loro dominio sugli altri.
Tra i molti temi aperti da Il nido, cito ancora la figura del guardiacaccia, a cui Galli dedica l’apertura della storia sviluppata in una serie di tavole senza parole. Il silenzio è d’obbligo per una scena di caccia. Il guardiacaccia, un abitante del luogo che appartiene all’ambiente naturale del Berghof e dei suoi boschi, inquadra nel mirino della carabina un cervo. Hitler è nel bosco, vede il cervo e il guardiacaccia, e con un gesto impone che l’animale sia risparmiato. Successivamente, a cena, tra gli ospiti chiassosi del Führer c’è chi si lamenta del pasto vegetariano: si tratta di un colonnello che viene apostrofato malamente da Hitler. Tuttavia il Führer, congedatosi anticipatamente, dichiara inaspettatamente che nella cena successiva sarà servito del cervo. L’animale libero nel bosco che era stato graziato, diventa nuovamente preda, e il guardiacaccia incaricato dell’abbattimento. Si ribaltano improvvisamente i ruoli, come stava accadendo sui campi di battaglia fra predatore e preda, mentre il guardiacaccia, che nel mirino aveva anche inquadrato Hitler durante una passeggiata nel bosco, evita dunque di colpire il cervo.
La storia perfetta di Galli ci accompagna fino al termine della vacanza e alla decisione di Hitler di tornare a Berlino. Il 14 luglio 1944 è la data in cui Hitler abbandona l’area di Berghof, e quindi anche il Nido, per non tornarci più. Si dirigerà però alla Tana del lupo, dove il 20 luglio sarà oggetto dell’inutile attentato organizzato da militari e aristocratici tedeschi, ovvero quella classe dirigente della Germania che era stata fondamentale per la sua nomina a cancelliere e che aveva condiviso ogni azione antioperaia e antisindacale fino allo sterminio di massa. Una classe dirigente opportunista e criminale, che si era enormemente arricchita in quegli anni di “stabilità e pace sociale”, ma che non perdonava a Hitler solo una cosa: di non avere vinto. Tutto questo e altro in quello che, con molta nostalgia, continuo a chiamare “fumetto”