Se i primi capitoli di Randagi potrebbero far pensare a una saga familiare della più felice tradizione, con personaggi abbastanza sgangherati da risultare irresistibili e una maledizione che aleggia sulle teste degli uomini del clan, destinati prima o poi a svanire nel nulla (ovvero, a darsela a gambe), quel che avviene dopo, una volta che Marco Amerighi ha fatto avvinghiare il lettore alle pagine del libro promettendogli lacrime e risate, nostalgia e partecipazione, è addirittura migliore. Perché, attraverso uno stile che con sapienza cambia registri e grafia in un sottile gioco tra leggerezze e profondità, l’opera conduce il lettore in un labirinto di emozioni complesse e contrastanti da cui sarà difficile uscire indifferenti.
Quella del protagonista Pietro Benati è la storia di un ragazzo come tanti, tra università ed Erasmus in Spagna, tra la voglia di fuggire da una casa che non sente come propria e l’ostinazione a dividere il mondo in buoni e cattivi, giusto e sbagliato.
Eppure, questa storia di apprendistato di un ragazzo senza qualità sfugge ancora una volta a facili incasellamenti di genere: se infatti Randagi da un lato sembra rispettare gli schemi del romanzo di formazione (la giovinezza, la rabbia, il conflitto con i genitori, la scoperta dell’amore) al contempo li rompe fragorosamente, in un’esplosione di originalità e freschezza stilistica del tutto innovative.
Randagi non è nemmeno un romanzo sul perdono, non è un romanzo sulla vita e sulla morte o su quello che la morte potrebbe insegnare sulla vita. Randagi è, semplicemente, una storia bellissima di esistenze che si incrociano e si sfiorano, senza forse appartenersi mai del tutto ma vibrando di un’intensità talmente autentica da far apparire possibile tutto, perfino la felicità. Una felicità che a Pietro, Laurent e Dora, anime raminghe alla ricerca di se stesse in posti sperduti, nell’abuso di droghe o in relazioni malate, sembra essere preclusa, o che loro stessi sembrano in qualche modo portati a sabotare, come se non riuscissero a uscire dalla spirale del fallimento. Qualcosa, nel loro affacciarsi all’età adulta, si è inceppato. E per Pietro, che temeva di sparire, la maledizione sembra essersi rovesciata: quando l’impensabile sarà accaduto, quando tutti i peggiori presagi si saranno realizzati, lui non riuscirà a fare altro che a chiudersi in casa. Portando avanti il rancore oltre qualsiasi ragionevolezza, allontanando volontariamente ogni spiraglio di ricongiungimento con un padre che odia di un odio talmente inteso da renderlo paragonabile all’amore, Pietro, nella sua reclusione un piano sopra di lui, sembra quasi finire per somigliargli. Forse perché proprio come suo padre “il Mutilo” – scomparso negli anni della sua infanzia e riapparso un bel giorno senza un mignolo e senza che nessuno osasse mai chiedergli cosa fosse successo – impara a capire che, anche se la felicità può sembrare irraggiungibile, quel che le sta subito dietro, il percorso per raggiungerla, è quanto di più simile si possa desiderare.
Durante una riunione di famiglia, il Mutilo regala a ognuno un amuleto con un significato particolare: la longevità, la tregua, la salute, il genio: “Pietro si avvicinò al padre lisciando la statuetta. «E il nostro cosa rappresenta?» Il Mutilo gli poggiò le mani sulle spalle e sorrise. «L’eterna lotta.»” Una lotta sfibrante, quella di Pietro, senza garanzie di successo e tuttavia combattuta strenuamente, a volte anche inconsciamente, in un turbine di eventi più o meno significativi che si susseguono tra la folla di personaggi secondari che arricchisce l’opera conferendole uno spessore brulicante di realismo.
La maestria di Amerighi sta nel non creare definizioni o facili corrispondenze causa-effetto che spiegherebbero solo in superficie i comportamenti dei suoi personaggi, ma nel calarli in contesti complessi e sfaccettati dove non vale più la regola di Cechov secondo cui se in un racconto compare una pistola, bisogna che prima o poi spari: Randagi è costellato di pistole che non sparano mai, e questa è la sua forza, quel che rende il romanzo così dolorosamente simile alla vita.