Marcella Frangipane / Amare la memoria

Marcella Frangipane, Un frammento alla volta. Dieci lezioni dall’archeologia, il Mulino, pp. 269, euro 18,00 stampa, 12,99 epub

La “Storia non si ripete ma fa rima con se stessa”, ha scritto Margaret Atwood nel romanzo I testamenti, una frase – citata da Marcella Frangipane in Un frammento alla volta – che rimanda alla serialità di una parte considerevole delle fonti archeologiche (manufatti, resti strutturali, tracce nel suolo), al loro ripresentarsi simili ma mai uguali agli occhi dell’archeologo che le confronta e riconosce le consonanze, una metrica simile, le rime. E prova, a partire da esse, a ricostruire una storia possibile. Nel libro di Frangipane non compaiono nomi di re, di dinastie, di battaglie, di eventi storici “grandi”. È sulla base delle fonti materiali che l’autrice, con una rimarchevole nitidezza di pensiero e di scrittura, propone una sintesi della protostoria di quella macro-regione (Mesopotamia e Anatolia, con incursioni nell’area siro-palestinese ed egiziana) nella quale hanno avuto origine tanti fondamenti della civiltà moderna. Un testo che sarà molto apprezzato anche da chi conosce poco o per nulla il contesto storico e geografico trattato e non ha dimestichezza con la lettura di sintesi archeologiche (del resto non così frequenti in ambito italiano), perché scritto con equilibrio tra profondità di ricerca e leggerezza di divulgazione, e capace di stare in piedi nello spazio tra la superficie della terra (noi, oggi, il contemporaneo) e il sotto-terra, in quello spessore della stratigrafia che è la concretezza e la prova del tempo trascorso.

Frangipane è docente di Archeologia preistorica e protostorica all’Università La Sapienza di Roma e dal 1990 è direttrice della missione archeologica ad Arslantepe, un importante sito archeologico della Turchia orientale entrato nella lista del Patrimonio dell’Umanità Unesco nel 2021. Ad Arslantepe gli archeologi hanno ritrovato quello che è ritenuto il palazzo pubblico più antico del mondo: un grande complesso architettonico, costruito intorno al 3400 a.C., privo di ogni connotazione religiosa. Partendo dai ritrovamenti di Arslantepe e di altri importati siti del Vicino Oriente antico, Frangipane affronta temi di capitale importanza per la storia più profonda dell’essere umano: l’origine della famiglia, la nascita di comunità sedentarie, dei meccanismi del potere, dello stato e dei confini, della burocrazia, della specializzazione del lavoro, delle disuguaglianze sociali, dello sviluppo tecnologico, della rivoluzione urbana e del concetto di ricchezza. Lo fa analizzando i resti dei manufatti e, soprattutto, le relazioni tra gli oggetti archeologici e i luoghi, l’ambiente, le persone e la realtà contemporanea. Gli oggetti, “nella loro nuova qualità di residui materiali di una realtà scomparsa”, vengono classificati, interpretati, raggruppati a costituire insiemi distintivi di determinate comunità, società, città e periodi storici che, nel tempo lungo dell’archeologia pre-protostorica, sono definiti alle estremità da eventi di distruzione, di collasso, di sparizione, di forte cambiamento.

Manufatti particolari più volte richiamati nel testo sono le cretulae, ritrovate a migliaia anche solo ad Arslantepe, nel palazzo del IV millennio a.C.: piccoli oggetti che ci raccontano quanto possa essere appassionante lo studio della nascita della burocrazia. Si tratta di grumi di argilla usati per sigillare i contenitori e le porte e su cui veniva apposto un sigillo, un timbro. Quelle di Arslantepe (e non solo) sono state studiate da alcune intraprendenti studiose (in particolare Alba Palmieri, direttrice della missione prima di Frangipane, Piera Ferioli ed Enrica Fiandra, pioniera in questi studi) che hanno superato la visione prettamente iconografica prevalente per anni nell’analisi di questi oggetti. Le cretulae conservano da una parte l’immagine impressa dal sigillo, dall’altra l’impronta dell’oggetto o del contenitore sul quale sono state premute. È proprio l’analisi di queste impronte che ha permesso di svelare il senso di questa pratica diffusissima. Il sigillo era probabilmente la “firma” di chi effettuava i prelievi di determinate merci; la cretula rimossa era la prova della transazione avvenuta e per un certo periodo veniva conservata negli archivi come ricevuta (in società, è bene ricordarlo, ancora prive di scrittura). Come spiega in modo convincente Frangipane, inizialmente le cretulae sono strumenti per una ridistribuzione collettiva del grano e di altre derrate di prima necessità, effettuata in modo controllato probabilmente da membri scelti della comunità; soltanto successivamente diventano uno strumento nelle mani dei più potenti, in società ormai statali e gerarchiche, per gestire le risorse in modo diseguale. Nei complessi pubblici, in particolare nei templi, dove le cretulae sono state ritrovate in grandi quantità, la redistribuzione del cibo è provata dalla presenza di resti organici e ceramici. Il potere dei templi, divenuti luoghi per esercitare un controllo economico e politico sui sudditi, è ormai evidente nel IV millennio a Uruk (Iraq meridionale), città cardine nella storia dell’uomo antico, e in particolare nella grande area templare dell’Eanna. È probabile che le offerte dei devoti ai templi a un certo punto siano state istituzionalizzate e siano diventate un modo per acquisire e incamerare dei beni. La nascita del potere sembra quindi derivata, in queste prime e già complesse comunità, dall’intento di controllare l’economia primaria (la distribuzione dei prodotti di sussistenza); il potere, per essere legittimato, fu legato alla sfera religiosa che ideologicamente era difficilmente contrastabile. La nascita della burocrazia e di una classe di addetti all’amministrazione fu fondamentale per la centralizzazione economica che preluse alla formazione dello stato, cioè alla trasformazione di quei meccanismi di potere in una struttura organizzata. Negli stati (III-II millennio a.C.) nacquero i confini, le prime forme di scrittura (dalla fine del IV millennio a Uruk) e il concetto di numero, discendente dal bisogno di annotare e di contare.

Un altro manufatto rivelatore di storie è la casa, il segno per eccellenza dell’uomo sedentario. Le prime case degne di questo nome, che hanno ospitato nuclei famigliari di una certa importanza, compaiono nel Vicino Oriente tra la fine del IX e l’inizio dell’VIII millennio a.C., nel periodo di nascita dell’agricoltura e dell’addomesticamento degli animali. La necessità di essere vicini ai campi per coltivare e raccogliere i frutti, e forse anche per affermare il proprio diritto a farlo, determina il bisogno di un’abitazione fissa, ma anche di manodopera (e quindi di una famiglia) e di luoghi per immagazzinare le scorte e il surplus della produzione. Così, dalle prime capanne circolari di campi-base temporanei si passa a case rettangolari. Questo passaggio, attestato quasi ovunque, sembra derivare dalla necessità di avere spazi più grandi, internamente suddivisibili e ampliabili a modulo. Nella Bassa Mesopotamia, tra la fine del VI e l’inizio del V millennio, si afferma il modello tripartito con uno spazio centrale comune, forse un cortile o una sala riunione coperta, e due ali laterali di stanze. La casa, a differenza di oggetti più piccoli come il vasellame ceramico, difficilmente viene imitato; l’apparizione di case di un certo tipo in un’area sembra indicativo di un reale trasferimento di persone, o dell’apparire di diverse esigenze legate al modo di vivere della famiglia. La presenza in un villaggio di qualche casa più grande delle altre, includente una concentrazione di elementi simbolici (ad esempio le sepolture di numerosi bambini che non possono essere stati tutti di un’unica famiglia), suggerisce una stratificazione già gerarchica della comunità e il comparire di forme di disuguaglianza sociale, che sembrano affermarsi precocemente nella Mesopotamia meridionale, almeno sin dal V millennio a.C.

Le cretulae e le case sono due esempi dell’analisi di Frangipane, che si dipana in dieci capitoli nel confronto tra la Mesopotamia meridionale (la terra tra i due fiumi, quella della nascita delle città, dei poteri forti politici e religiosi, degli imperi), Anatolia e Mesopotamia settentrionale, ma anche Egitto e area siro-palestinese. Talvolta i resti dei manufatti ritrovati in queste diverse regioni “fanno rima”; altre volte, invece, presentano differenze rilevanti, evidenti ad esempio quando si prende in esame il tema della rivoluzione urbana. La citata Uruk in Bassa Mesopotamia nel IV millennio aveva una dimensione di 200 ettari mentre Arslantepe non superava i 5, un segno forse di un mancata connessione tra la popolazione e le élite al potere ma anche, probabilmente, di una minore specializzazione del lavoro, che aumenta quanto maggiore è il surplus di produzione e più sviluppate sono le attività specialistiche, quali alcune produzioni ceramiche e le lavorazioni metallurgiche. Le differenze tra un sito e un altro, tra regione e regione, non sono facili da spiegare e l’autrice non ricorre a un facile determinismo ambientale.

A fare da sfondo all’intero racconto sono il senso dell’archeologia, questa disciplina che è “scienza dell’uomo nel tempo”, e il lavoro concreto dell’archeologo con i suoi limiti, le difficoltà, gli interrogativi disseminati sulla strada per ricomporre qualcosa che non si può ricomporre e che ci eluderà sempre, perché il passato è rotto. L’archeologia non è una “scienza dura”: la prova non consiste nella possibilità di condurre e reiterare un esperimento empirico, “in archeologia la prova sta nella coerenza di tutti i dati che riusciamo a ricavare dai frammenti recuperati e sui quali costruiamo le nostre ipotesi, e nella non contraddizione tra le varie informazioni ottenute. Solo così possiamo dare legittimità a quella parte del processo conoscitivo che deve necessariamente ricorrere all’immaginazione”.

L’accenno all’immaginazione è importante perché fa pensare che anche se “inventata” – e in una certa misura quella ricostruita a partire dai dati archeologici lo è, per quanto plausibilmente – la storia ricostruita è necessaria non solo perché spesso è l’unica possibile, basata su residui materiali che sono i soli indicatori di milioni di persone scomparse, ma anche perché ci permette di avere uno spazio di libertà in più, da riscrivere ogni volta che giungano nuovi dati a integrare le conoscenze pregresse; uno spazio-tempo da abitare nella ricerca specialistica ma anche nell’immaginario collettivo.