Houria Bouteldja / Maranza, o dei figli degli altri  

In Beaufs et barbares con uno stile brillante e controintuitivo Houria Bouteldja delinea una «scommessa» per spezzare quanto più possibile i legami di consenso, e le relazioni di dominio, vigenti tra classi dirigenti e classi subalterne. Una scommessa controversa e «non vinta in partenza» come riconosce la stessa autrice.

La notizia della traduzione del libro di Houria Bouteldja Beaufs et barbares, uscito in lingua originale nel 2023, come Maranza di tutto il mondo, unitevi!, per la collana “hic sunt leones” di DeriveApprodi, mi arriva insieme a pareri e posizionamenti politici contrastanti: da un lato, c’è chi biasima un certo rossobrunismo che serpeggia trasversalmente alle formazioni politiche e ai dibattiti culturali europei; dall’altro, c’è chi sottolinea la capacità di un certo milieu culturale francofono di poter sviluppare e approfondire quella teoria decoloniale che altrove resta lettera morta o comunque non esce dai limiti – come si suol dire (da destra, ma non solo) – della cosiddetta “ideologia woke”.

Ora, propugnando la possibilità di una solidarietà politica rivoluzionaria, in particolar modo in Francia, tra il sottoproletariato bianco (beaufs) e quello “indigeno” (barbares) – nel 2005, Bouteldja è stata fondatrice del movimento del Parti des Indigènes de la République (che lascerà nel 2020) – il testo è esso stesso luogo di incontro di forze contrastanti: talora contraddittorie, talora frontalmente contrapposte. Forze tensive che aumentano, anziché diminuire, nella traduzione italiana, dove la traduzione di beaufs et barbares con bifolchi e maranza aggiunge stratificazione culturale e politica alla questione, esplicitata già nella nota editoriale introduttiva, intitolata “Perché maranza”:

Nel giro di pochi anni il termine maranza (neologismo nato a Milano dalla combinazione di «marocchino», nel gergo popolare sinonimo di immigrato, e «zanza», ossia «tamarro») è andato oltre l’identificazione «etnica», per definire quei ragazzi e quelle ragazze che, nel modo di vestire e di comportarsi, non si conformano ai codici della normalità sociale. Sono le nuove classi pericolose. Nel ribaltamento degli immaginari dominanti, l’essere maranza è tuttavia diventato una complessa, certo ambigua ma terribilmente concreta rivendicazione di potere da parte di chi, giovani neri e non delle periferie metropolitane, potere non ne ha mai avuto. Una rivendicazione non traducibile nel lessico della politica tradizionale. (pp. 7-8)

Tale scelta è poi rafforzata dalla convinzione espressa dalla traduttrice Elsa Gios e da Miguel Mellino, nella loro introduzione, che «in un certo senso Beaufs et barbares, attraverso la stessa intraducibilità dei due termini nella specificità della storia nazionale, parla anche di noi, cioè dei conflitti e delle dinamiche della lotta di classe e di razza che sono diventate sempre più visibili anche nei nostri spazi» (p. 15). Meccanismo che potrebbe poi essere esteso – con le sue aporie, ma anche con la sua produttività, anche soltanto speculativa – ad altri ambiti, come quello statunitense, dove i bifolchi sono white trash, mentre non sembra esserci equivalente stabile per i maranza/barbares, né una loro possibile unione all’insegna della rielaborazione creativa del motto marxiano – illuminando già così una storia politica e culturale per alcuni aspetti apparentabile, ma in ultima istanza destinata a esiti fortemente diversi.

Bouteldja, dunque, si concentra primariamente sulla storia e sulla situazione politica francese, ma lo fa all’interno del più esteso paradigma di “in/traducibilità” già citato, fornendo coordinate di lunga durata e risalendo fino alla formazione dello «Stato razziale integrale» che è oggi la Francia – combinando, così, la categoria gramsciana di “Stato integrale” con la costituzione razzializzata della modernità non soltanto francese, ma euroamericana, in funzione della dominazione schiavista e coloniale imposta per secoli dai vari Paesi europei su buona parte del globo.

Naturalmente, sembrano esserci vari punti di forza e punti di debolezza in questo bricolage teorico – termine denotativo, in prima battuta, e scevro di giudizio – che comprende riferimenti ai testi di Sadri Khiari o Hamid Dabashi, sul versante decoloniale, e di Gramsci e Domenico Losurdo (passando, con notevole deviazione, anche per la teoria dello Stato di Nicos Poulantzas), sul versante marxista. Sono versanti, questi ultimi, grandemente articolati anche al loro interno, creando una forte disponibilità polemica per il testo; ciò permette, ad esempio, a Sandro Moiso di recuperare, nella propria recensione del libro su Carmilla, un approccio bordighista, in quanto «Amadeo Bordiga […] negli anni ‘50 e ‘60 aveva saputo trattare differentemente la questione dell’internazionalismo, del colonialismo e dei fattori di razza e nazione nell’ambito della Sinistra comunista. Autore, Bordiga, rimosso dalla storiografia comunista proprio da quelle stesse forze che, in Italia col PCI togliattiano e il PCF in Francia, avevano così tanto aderito, così come i loro tremuli e liberali epigoni, al patto sociale e razziale criticato dalla Bouteldja». E si potrebbero citare molti altri posizionamenti teorici o politici, non ultimo quello di una critica femminista (ma anche: transfemminista, queer, LGBTQIA+, etc.) che certamente può intervenire, nell’ambito di una possibile alleanza o solidarietà tra beaufs e barbares, rivendicando ragioni di primaria rilevanza.

Nel commento di Moiso emerge, tuttavia, un’altra parte importante del libro di Bouteldja, ovvero la sua analisi del ruolo storico giocato, all’interno dello “Stato integrale razziale” dal Partito Comunista francese nel corso del Novecento, specialmente sotto la guida di Maurice Thorez, segretario dal 1930 al 1964. Di fatto, la disamina storica della condotta del PCF, in particolar modo nei confronti della questione algerina, non può essere elusa, trattandosi di un trauma politico, sociale e culturale di caratura transgenerazionale e che ancora ha una sua cogenza nel presente. Su questo punto, poi, «i marxisti francesi tentano invano di liberarsi dal proudhonismo» – recita il titolo di un paragrafo di Bouteldja –, ricordando come fosse prerogativa dei proudhoniani, all’epoca della Seconda Internazionale, demandare all’evoluzione della politica francese (e su suolo francese) la carica rivoluzionaria che poi si sarebbe dovuta esportare negli altri Paesi, colonie incluse. Il proudhonismo – posizione di cui ci sono vari discendenti o esponenti anche nella contemporaneità, come Michael Onfray –  sembra allora assimilabile a una delle tante versioni di quel rossobrunismo che si vorrebbe imputare a Bouteldja; quest’ultima lo respinge nettamente, rifiutando al contempo, e tra le righe, l’idea di “socialismo in un solo paese” (formulazione staliniana, ma derivante anche da quella matrice storica), che invece Moiso rintraccia in Beaufs et barbares.

Vi è anche un altro trauma sociale e politico che il testo chiama in causa, importante in primo luogo per la Francia, ma che si dovrà, nel tempo, analizzare perlomeno anche a livello europeo, ossia il movimento dei gilet gialli. Attivo soprattutto nel biennio 2018-2019, quel movimento sta andando incontro a una progressiva estinzione – dovuta anche a una specifica azione repressiva, raccontata ad esempio in questo libro di Sophie Divry – ma ciò non ne ha diminuito la portata politica e al tempo stesso, come si suol dire in Italia, “antipolitica”. Più che alcuni citazioni sparse di questo movimento – che, come si ricorderà, è stato molto più beauf che barbare – sono alcuni passaggi di Bouteldja sul voto politico a manifestare questo lascito: se, all’interno di una discussione dello “Stato razziale integrale”, è prevedibile poter leggere, per ben due volte: «Votare significa votare bianco…» (p. 80 e p. 84), a una riflessione sui gilet gialli è inevitabilmente legata l’affermazione precedente, per la quale «votare per l’estrema sinistra è raro» (ibid.). E questo non tanto perché la costituente ideologica dei gilets jaunes sia mai stata ideologicamente compatta e monolitica, ma perché la relazione tra gilets jaunes e Rassemblement National è sempre stata più lineare, anche nelle sue manifestazioni pubbliche e mediatiche, di quella tra gli stessi gilet gialli e, per fare un esempio, un Jean-Luc Mélenchon che ha dapprima vestito la casacca gialla per poi essere tacciato di commenti privati contro quei fachos dei movimentisti (con le modalità, peraltro, di un gossip politico, molto utile alle argomentazioni e alla propaganda del RN).

Una vicenda innegabilmente complessa, quest’ultima, che non si può ripercorrere qui per ragioni di spazio, ma che è sicuramente significativa, per un testo che, uscito ben prima delle elezioni legislative francesi del 2024, tracciava già un quadro importante delle tensioni politiche e culturali attorno al partito della France Insoumise: mentre le classi dirigenti, secondo Bouteldja, cercano «collaborazionisti» più “estremisti” e finiscono per scegliere sempre quelli di estrema destra rispetto a quelli di estrema sinistra – il loro slogan, scrive icasticamente l’autrice, potrebbe essere: «Meglio Hitler che il Fronte popolare! Meglio Zemmour che Mélenchon!» (pp.92-93), uno slogan che, nella sua seconda parte, sembra profetico rispetto alla modalità di costituzione del governo Barnier, nell’estate 2024 – l’elettorato beauf non li segue, ancora una volta, né in modo compatto né in modo irreversibile.

È però a questo punto che il saggio di Bouteldja – invece di puntare su una subalternità sociale evidente e trasversale, patente non solo nei termini marxisti della classe, ma anche in quelli dell’egualitarismo radicale rivendicato da un Rancière (nel Disaccordo, già a metà degli anni Novanta, il filosofo francese raccontava lo slittamento ideologico dai “lavoratori immigrati” agli “immigrati”, o anche “migranti”, come funzionale a una determinata economia tardocapitalista e a un sistema democratico di tipo “consensualista”) – presenta soluzioni ancor più controverse (disponibili, in ogni caso, per un’amplissima discussione), dapprima invocando un termine che, in italiano almeno, risuona come appartenente a un vocabolario di destra più che di sinistra:

[I]l cammino verso l’ottimismo potrà essere ritrovato solo se, in quanto militanti, saremo capaci di individuare ciò che, al di là del loro essere bianchi, definisce la dignità dei francesi e, per estensione, degli europei e degli occidentali. In altre parole, ciò che può distoglierli dalla loro bianchezza e farli accedere a un nuovo immaginario politico. Qualora risulti che questa dignità costituisca una base sufficientemente potente, allora potremmo immaginare i contorni di una strategia globale di rottura con il patto razziale, condizione indispensabile per un’alleanza tra beaufs e barbares e per un nuovo atto politico di unificazione delle classi popolari che potrebbe essere chiamato anche “blocco storico o “maggioranza decoloniale”. (pp. 93-94)

 Ancora più pragmatica e netta è poi la proposta, avanzata nelle ultime pagine del libro, di una “Frexit decoloniale” come battaglia che potrebbe unire concretamente beaufs e barbares. Ora, è innegabile che l’Unione Europa si sia costituita sempre più come fortress Europe, e che un gruppo di estrema destra contrario alle politiche di migrazione e di asilo politico si sia sintomaticamente chiamato Defend Europe, generando un’opposizione barbare che si può sommare all’anti-europeismo, soprattutto se di classe, di marca beauf. Allo stato attuale, tuttavia, non pare opportuno affermare che il «tallone d’Achille» dello Stato razziale integrale sia «l’Unione Europea» (p. 129), dove la Frexit sembra un orizzonte politico molto lontano, dal punto di vista pragmatico; inoltre, non sembra possibile pensare alla Frexit – dopo l’esempio realizzato, per quanto diversissimo, della Brexit – senza che questo dia luogo a varie forme di pseudo – o reale nazionalismo reattivo (peraltro da sempre esistente nella storia delle relazioni dei singoli Paesi con l’Unione Europea, come sottolinea correttamente Bouteldja).

Detto questo, non si può nemmeno disdegnare di continuare nel segno della «scommessa» delineata da Bouteldja, e non solo per non lasciare nulla di intentato, ma per spezzare quanto più possibile i legami di consenso, quando non le relazioni di dominio, vigenti tra classi dirigenti e classi subalterne, nelle loro varie componenti. Se si è davanti a «una scommessa non vinta in partenza», è pur vero che «nessuna scommessa è mai vinta in partenza» (p. 129), dice l’ottimismo della volontà di Bouteldja, una posizione che, tra l’altro, e sempre di concerto con il pessimismo della ragione, connota buona parte della recente linea editoriale di DeriveApprodi.

Non è un caso, infatti, che un’importante pubblicazione precedente di DeriveApprodi, Restare barbari (2023), di Louisa Yousfi, sia dedicata a Bouteldja e, soprattutto, si avvalga di una delle lingue oggi più praticate dai barbares e, in Italia, dai “maranza”, ossia la lingua del rap contemporaneo, nelle sue varie declinazioni. Yousfi vi scorge l’occasione non tanto per un separatismo identitario, basato sul passato, o per una celebrazione acritica – del libro di Yousfi è molto importante il capitolo finale, in cui approfondisce le questioni di genere che sorgono dal suo rapporto con i “barbari” e/o “maranza”, quasi sempre maschi e spesso maschilisti – ma per un investimento sul residuo di inassimilabilità, potenzialmente rivoluzionario, che riguarda il nostro futuro, quello, auspicabilmente, di «persone che, nel loro grande “disorientamento”, direbbe Badiou, sanno ancora amare i figli» e le figlie e figli* «degli altri» (p. 123)