Le storie di resistenza corrono talvolta il rischio di diventare epopee conchiuse e fini a sé stesse, occultando quelle zone grigie, o anche completamente oscure, che inevitabilmente le costellano. Eppure, la presenza di “segreti”, dai quali trae il titolo il romanzo breve di Mara Mahía, lacera la vita degli individui, delle loro famiglie, talora anche di intere collettività: ciò può intaccare le ragioni, i valori e le prospettive della resistenza politica, oppure no; esiti anche diametralmente opposti convergono, in ogni caso, verso la necessità di addivenire a una narrazione che, anche quando non riesca a illuminare o risolvere, tenga conto dei segreti, delle lacune, del non-detto traumatico.
Nel caso di Mahía, i segreti evocati nel titolo punteggiano una storia di resistenza al franchismo – non soltanto durante la guerra civile spagnola, ma anche nel periodo di consolidamento, e poi di stasi, del regime – “declinata al femminile”, ossia, svolgendo il significato di un’espressione in sé discutibile, ubicata all’interno di una famiglia gallega in cui si intrecciano le vicende, e le voci, di almeno tre generazioni di donne.
La più convincente e duratura di queste voci è quella che assomiglia di più – per alcune comunanze generali, e senza necessariamente scorgervi un sospetto di autobiografismo – alla vicenda dell’autrice, nata in Galizia nel 1968, cresciuta a New York e ora residente a Berlino. Ed è una voce convincente da un punto di vista strettamente formale, perché imprime alla propria narrazione una certa visione del mondo – senza cadere nella caricatura e autocaricatura di un’ultima generazione più cosmopolita e magari, per questo motivo, più “matura” – ma nella consapevolezza, a tratti angosciante, che i propri segreti e le proprie lacune, amplificati da quelli degli altri personaggi, possono continuamente mettere in crisi anche le proprie certezze.
Inoltre, il processo di “maturazione” riguarda tutte le generazioni in campo, con risvolti sempre diversi, ma sempre dovuti a una dolorosa conquista – una “maturazione del segreto”, si potrebbe dire, che si intreccia spesso con un processo che viene più comunemente definito di elaborazione del lutto. Particolarmente interessante, a questo proposito, risulta il personaggio della madre della protagonista, per buona parte del libro responsabile, anche morale, di certi “segreti”, ma che, a un certo punto del libro, inizia a spiegare le proprie ragioni. Accade con il più classico dei topoi, ovvero il ritrovamento del suo diario personale da parte dei figli: si aggiunge così una versione dei fatti che dà conto in altro modo delle parole dette a mezza bocca, delle lacune e dei non-detti che attraversano la storia della famiglia, segnandola irrimediabilmente.
Nella sua classicità quasi convenzionale, il ricorso al ritrovamento del diario segnala, in modo quasi sintomatico, alcune qualità preziose del testo, che convenzionale non è, ossia il mantenimento di una forte unità formale nel corso della narrazione – sorretta da alcune situazioni narrative che, occasionalmente, possono apparire ai limiti dello stereotipo, soprattutto per chi sia avvezzo alla letteratura spagnola del secondo Novecento e contemporanea – e di una coerenza politica di fondo. A questo proposito, ci sono alcuni episodi che vengono via via alla luce, senza mai essere spiegati del tutto, e che potrebbero mettere in crisi anche il livello politico della narrazione, ma a dominare resta un nitido approccio memoriale, e insieme etico, che finisce per persuadere e avvincere chi legge.
Sintomo per eccellenza di questa difficoltà e di questa crisi, nonché della correlata elaborazione, o maturazione, è il nome di Leonor, che attraversa la narrazione fin dalla sua prima occorrenza traumatica: in principio, è il nome di una bambina sepolta in una fossa comune, ma poi continua ad apparire nel testo secondo altre ipotesi narrative e prendendo altre forme. Non si fa mai significante vuoto, però: il segreto, in quanto lacuna, non aggredisce mai la solidità della scrittura di Mahía, evitando esiti sofisticati di indecidibilità che, a loro volta, hanno raggiunto fin troppa riconoscibilità letteraria.
Un plauso, dunque, alla scelta editoriale di Arkadia, che arricchisce la sua collana di letteratura in lingua spagnola in traduzione con un testo – scovato nel bel catalogo della piccola casa editrice sivigliana Editorial Dieciséis – ai traduttori e alla scelta della copertina che, con una sorta di Guernica pop e di genere, restituisce immediatamente all’occhio il senso e il valore di una storia che continua a offuscare e insieme rivelare il suo portato traumatico, richiedendo quindi un occhio attento e partecipe a chi legge.