Sono da poco usciti due splendidi libri dedicati al nostro più stretto parente biologico lungo il ramo dell’evoluzione: l’uomo di Neanderthal o, se si preferisce il tedesco più moderno senza th, Neandertal. Due libri da leggere in parallelo per avere un quadro completo e preciso sullo stato attuale delle ricerche riguardo a un argomento complesso che richiede approcci multidisciplinari. Il primo è opera di Giorgio Manzi, (L’ultimo Neanderthal racconta. Storie prima della storia, il Mulino, pp. 221, euro 15,00 stampa, euro 10,49 epub) uno dei maggiori paleoantropologi a livello internazionale, docente alla Sapienza di Roma; l’altro, edito da Bollati Boringhieri, della giovane archeologa inglese Rebecca Wragg Sykes (Neandertal. Vita, arte, amore e morte, tr. Francesca Pe’, Bollati Boringhieri, pp. 441, euro 27,00 stampa, euro 18,99 epub).
Un terzo punto di vista indispensabile al lettore per farsi un’idea il più possibile approfondita della questione, potrebbe venire dal confronto con i testi del genetista Guido Barbujani di cui abbiamo già parlato su queste pagine: Sappiatelo, gli africani siamo noi, un approccio alle più recenti analisi del DNA che presenta anche qualche differenza di opinione fra gli studiosi.
Partiamo dal presupposto che il patrimonio genetico di Homo Sapiens è condiviso al 98% con quello dello scimpanzé, il primate nostro più stretto parente. Una percentuale variabile dal 3 al 4 % circa del nostro DNA è quello Neanderthal, quasi assente negli africani – i più Sapiens dei Sapiens, perché da lì è partita la nostra avventura, a ovest del Lago Turkana, in varie ondate di espansione – e progressivamente maggiore altrove. Secondo Barbujani il fatto non prova necessariamente che le due specie si siano incrociate ma potrebbe semplicemente derivarci dal più prossimo antenato comune, il cosiddetto Homo Heidelbergensis; Manzi e Wragg Sykes invece propendono per l’ipotesi dell’ibridazione fertile, fino a sostenere che, in realtà, si potrebbe parlare non tanto di estinzione del Neanderthal quanto di assimilazione: l’Homo Neanderthalensis sopravvive nel Sapiens, cioè in noi.
Ma chi fu, anzi chi è questo nostro alter ego? Individuato per la prima volta nel 1856, presso Düsseldorf, nella valle che prendeva nome da Joachim Neumann (uomo nuovo), musicista seicentesco che aveva grecizzato il cognome, secondo i vezzi dell’epoca, in Neander: quindi Neanderthal (valle dell’uomo nuovo) o, con ortografia tedesca meno arcaica, Neandertal. Nella valle dell’uomo nuovo si scoprì l’uomo vecchio: in una cava di calcare i cavatori ritrovarono uno scheletro indubitabilmente umano ma assai diverso anatomicamente. Massiccia arcata sopracciliare simile a una calotta sopra le orbite, fronte sfuggente all’indietro, volta cranica bassa ma molto allungata e allargata posteriormente, assenza del mento, arti più corti e massicci. Si scatenò una diatriba fra i maggiori studiosi del tempo: dall’anatomista Schaaffhausen, al darwiniano Thomas Henry Huxley, all’anatomopatologo Virchow, fino al geologo William King, che interpretavano fantasiosamente i resti variando dall’ipotesi di un esemplare di una razza umana selvaggia dell’era glaciale, anello intermedio fra la scimmia e l’uomo; a un caso patologico di deformità; per immaginare addirittura un cavaliere cosacco ferito in fuga, caduto dopo la disfatta napoleonica della Beresina. Fu King nel 1864 a chiamarlo Homo Neanderthalensis identificandolo come reperto di una specie, se non proprio di un genere, diverso dal Sapiens. Non un precursore quindi, ma, come aveva notato anche Huxley, il frutto di un ramo collaterale dell’evoluzione umana.
Vari altri reperti ritrovati negli anni precedenti al 1856 vennero poi identificati come neandertaliani e molti altri vennero rinvenuti in tempi più recenti, a Gibilterra, La Naulette, Spy, a Krapina in Croazia, nel sud-ovest della Francia a La Ferrasie, Le Moustier, La Quina, in Italia a Campitello, Lamalunga, Cavallo, fino alla lontana Denisova, sugli Altai della Siberia meridionale, dove emerge di recente la traccia di una misteriosa nuova specie sconosciuta ibridata sia coi Neanderthal che con i Sapiens.
Il volume encefalico dei Neanderthal, data anche la struttura platicefala della loro volta cranica allungata posteriormente e lateralmente, era maggiore del nostro, l’esempio massimo del fenomeno di encefalizzazione tipico di tutta la specie Homo. Non c’è ragione di credere che le loro capacità intellettive e la possibilità di pensiero simbolico ed espressione linguistica fossero inferiori alle nostre: qui Manzi resta più tiepido, esprimendo la convinzione che siano dimostrabili solo barlumi di prodotti culturali, una struttura socio-cognitiva probabilmente derivata ed imitata dai Neanderthal durante il lungo periodo – circa 10.000 anni – di coesistenza e convivenza europea con i Sapiens. Wragg Sykes invece cerca di mettere in evidenza tutte le prove di un’autonomia inventiva dei Neanderthal e di uno scambio reciproco di nozioni e tecniche fra le due specie. Da archeologa esamina la tecnologia di frammentazione della pietra per produrre manufatti secondo varie forme di scheggiatura sviluppata seguendo concetti geometrici: vari metodi diversi affinati in periodi e luoghi distinti – il metodo Levallois, il metodo Discoide, il metodo Quina – tutti dimostrano un’abilità artigianale e una manualità eccezionali. Separando i luoghi e i momenti della fabbricazione, riutilizzando utensili vecchi riaffilati successivamente evidenziavano una mente con alte capacità di memoria e pianificazione, in grado di muoversi nello spazio e nel tempo immaginando eventi con giorni e forse stagioni di anticipo. Il ritrovamento a Schöningen di 15.000 reperti sopravvissuti in osso con numerosi frammenti di legno, ci dimostrano l’uso di lance sofisticate e diversificate: giavellotti corti da lancio e picche di due metri e mezzo per la presa a distanza. Metodi di caccia elaborati quindi e scelta accurata dei materiali, legno di tasso, particolarmente resistente e flessibile. A Poggetti Vecchi, presso Grosseto, sono stati ritrovati decine di frammenti di elaborati bastoni da scavo in legno di bosso, ancora più duro e compatto del tasso. A Königsaue si sono individuati strumenti composti con parte attiva in pietra e manico in legno saldati da un mastice che le analisi chimiche hanno individuato come catrame di betulla, la parziale impronta digitale sul manufatto lo rivela come Neanderthal risalente a un periodo compreso fra gli 85 e i 74000 anni fa. La produzione di sostanze adesive per fissare le impugnature denota una complessità cognitiva pari a quella dei primi Sapiens in Africa.
È improbabile che i neandertaliani avessero potuto sviluppare tecnologie così raffinate senza un contesto di apprendimento sociale e una capacità di comunicazione sufficientemente elaborata. Ancora più significativo il fatto che non ci si accontentasse della funzionalità dell’oggetto ma si considerasse anche la sua bellezza: sono stati ritrovati oggetti privi di una chiara funzione pratica giustificabili solo da una motivazione estetica. Un cristallo di quarzo ad Abri des Pecheur, nella Francia sud orientale, una conchiglia fossile a Pech de L’Azé; perfino oggetti insoliti – geodi, stalagmiti piatte a forma di ciotola, conchiglie – su cui i neandertaliani hanno applicato ocra rossa e pigmenti colorati. A Maltravieso nelle grotte note per le impronte di mani lasciate dai Sapiens spruzzando e spalmando la pittura nel Paleolitico Superiore, in un’area isolata sul soffitto un’impronta è stata datata analizzando i campioni di calcite adiacenti che risalgono a oltre 54000 anni fa, troppo antica: potrebbe essere la prima immagine intenzionale di una mano neanderthal.
Frammenti di osso intagliato in serie ordinate – apparenti forme di conteggio basate sulle serie – presenza di conchiglie, piume e artigli di rapaci – possibili ornamenti – tracce di residui di conciatura, tintura e affumicatura delle pelli, sono indizi non inequivocabili ma verosimili di una cultura assai più avanzata di quanto abitualmente sospettiamo. Ancora più significativi i residui di probabili pratiche funerarie: corpi interi deposti in luoghi riparati che potrebbero essere “tombe”, o, più spesso frammenti di corpi smembrati e macellati come le prede animali ma per uno scopo diverso da quello alimentare, come per i Sapiens più antichi, l’occasionale cannibalismo sembrerebbe legato a pratiche rituali di incorporazione e di perpetuazione del defunto nel vivente: atti non di violazione ma di intimità. Come sostiene Wragg Sykes: “I neandertaliani non ignoravano i cadaveri né li trattavano come immondizia. Non rimanevano impassibili di fronte alla morte, e molto probabilmente l’interazione con il cadavere nasceva dal bisogno di elaborare – se non razionalizzare – il trauma emotivo”. L’assimilazione fisica e culturale fra noi Sapiens e i Neanderthal sembra per Wragg Sykes l’ipotesi più probabile. La studiosa ci invita a chiudere gli occhi e a proiettarci nel Pleistocene: i neandertaliani sono dentro di noi, umani, fratelli.
Il fascino parallelo dei due libri e dell’approccio, pur diverso, dei due autori, consiste anche nell’aver voluto entrambi costruire i rispettivi capitoli dei loro studi su un’introduzione narrativa, speculativa, poetica e immaginifica a cui segue la più corposa parte saggistica, scientifica e informativa. Un modo comune e accattivante di avvincere il lettore in un appassionante percorso di divulgazione alla ricerca delle nostre remote radici.