Le scene del primo Ventennio novecentesco sono molte, nella Parigi d’immagini fluviali e arrondissement dove la guerra è un incidente troppo profondo perché le menti possano, dopo, ritrovare i pezzettini – contando che ne sarebbe succeduta una seconda, e poi ancora una terza, e chissà…
Morti, povertà, arte & letteratura, matrimoni. Italiani e francesi, beceri e intelligenti, s’incrociano ai lati della Senna, si odiano e s’amano, fornicano e si sfidano a duello, alcuni s’innamorano di belle senza troppe pretese e le sposano, affascinandosi di strali futuristi, e delle furbastre parolelibere. Sono gli stessi che polemizzano e si sconvolgono per creatività notturne e diurne, vini e carni morbidamente accavallate nell’Olimpo dei locali più passionali della Cité Paris. Scandali e risate, storielle anche infantili, in tutto questo Gino Severini, giovane pittore italiano, ha appena sposato la sedicenne Jeanne Fort, figlia del “Principe dei poeti” Jules Jean. 28 Agosto 1913: è una festa laica, di cui si occupano le cronache, ricca di presenze persino inquietanti, tra Filippo Tommaso Marinetti e Guillaume Apollinaire. E iniziano le polemiche, i favorevoli e contrari alla cerimonia “passatista”, gli aiuti che prima mancano e poi giungono alla coppia in ristrettezze finanziarie. Boccioni ostacola, Jarry concede soccorso.
La sarabanda di figure fiere e corrucciate, speranzose e sempre vitali, vengono “filmate” dalle lenti e dalla penna attentissime di Lino Mannocci (ahimè scomparso pochi giorni orsono) e con florilegio di particolari fuori dal comune. Nessuno sfugge ai capitoli, tutti connessi fra loro, di questo libretto comodo da sfogliare, da tenere in tasca, morbido e profumato di carta d’altri tempi. Consultabile ogni qualvolta la giornata si fa tetra e vorremmo risentire qualche nota di Strauss, oltre agli eccitanti lampi del varietà letterario del primo Novecento. Si rimane così, invitati alle scene cittadine e talvolta private, per poco ma quanto basta per far provvista d’emozioni. Con pochi denari, dentro gli agi e le odiosità d’artisti e scrittori che ci hanno confortato e registrato la giovinezza.
Le avanguardie storiche hanno sempre posseduto fior fiore – nelle loro intimità più mascherate e alcoliche (al netto di una “drogheria” vetusta ma sempre in auge) – di teatri e teatranti di prim’ordine. Averne ancora oggi, nel gira e rigira dei balletti serial-televisivi, nelle asettiche concupiscenze poetiche in voga. Cronaca informata e documentata dei rapporti fra l’avanguardia francese e italiana? Eccola qui, come se il fatidico 1913 fosse improvvisamente risvegliato dagli immensi depositi. Con il suo carico di letterati e buffoni, riviste storiche (Lacerba, Mercure de France), muse ritrovate pienamente, a ragione e con grandi meriti (Rachilde, Valentine de Saint-Point, e via dicendo), prime attrici nella processione artistica.
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Con uno stacco scenico simile a quelli con cui il grande cinema ci ha deliziato, circa mezzo secolo dopo la prima pubblicazione mutila e rimaneggiata da parte di Gallimard, secondo il detto “a ognuno il suo capolavoro”, e con una certa malizia, ricompare un tormentato rappresentante di complicate storie editoriali: Thérese e Isabelle di Violette Leduc. Il cambio repentino dell’inquadratura è dovuto al traduttore (con la compagnia femminile di Laura Cimenti) di quest’opera: Adriano Spatola, poeta frequentante negli anni Sessanta un post-futurismo da lui, per un certo tempo, inventato e prodotto attraverso libri, riviste e compagni d’avventura. Teresa e Isabella usci per Feltrinelli nel 1969, dopodiché sparì dalle librerie. Oggi ritorna con il titolo originale e con due note che ne narrano le disavventure.
Amori impossibili non sono mancati a Violette Leduc, francamente non bella, ma converrà sapere che alla passione non sono consentiti ostacoli estetici di qualsivoglia specie o origine, tanto meno le liaison omosessuali determinano freni riguardanti stato civile e modalità carnali o letterarie. Ma sono i destinatari editoriali (spesso maschi) a cavalcare censure e ritrosie commerciali. L’amore fra Thérèse (la stessa Violette) e la compagna di collegio Isabelle è vissuto nella realtà come relazione sentimentale, sconvolgente, in ogni parte del corpo e dell’anima. Leduc scrive la sua storia alla fine degli anni Quaranta, molto tempo dopo e in concomitanza con l’innamoramento per Simone de Beauvoir. La ricchezza di particolari intimi descritti con estrema libertà ne impedisce la pubblicazione, il banchetto dei sensi in quelle pagine trova forti ostacoli nei maschi che dirigono la Gallimard. E iniziano le vicissitudini editoriali di un racconto ammirevole per limpidezza descrittiva e poetica. Tutto questo viene ampiamente spiegato nell’introduzione di Sandra Petrignani e nella postfazione di Carlo Jansiti, pronte a impedire al lettore di perdersi nell’incanto delle licenziosità e a bloccare il conformismo sessuale emerso nel nostro secolo. Non sono ammesse discussioni, la scrittura nelle pagine di Thérese e Isabelle non corrompe, se mai è intenzionata a mostrare il prodigioso amore femminile nel suo svolgersi, al netto di epoche e circostanze sociali. La bellezza è quasi sempre una sfida, ed è la chiave di una civiltà. E nella traduzione ritroviamo, ben riconoscibili, gli stilemi già adottati da Adriano Spatola nei suoi versi – valore aggiuntivo di cui tenere conto nella fitta rete degli itinerari letterati che ci piacciono.