Nella formulazione iniziale della nozione di situazione rivoluzionaria (nel suo articolo “L’iniziativa del Primo maggio del proletariato rivoluzionario”) Lenin descrive due condizioni per una situazione rivoluzionaria, che sono state poi riassunte come “chi sta in basso non vuole e chi sta in alto non può più vivere alla vecchia maniera”. In seguito, Lenin aggiunge un’ulteriore condizione: la disponibilità delle masse all’azione rivoluzionaria.
Nel suo libro Estremismo: malattia infantile del comunismo sostiene addirittura che per la vittoria della rivoluzione è necessario che la maggioranza dei lavoratori sia pronta a incontrare la morte nella lotta. La più grande delle conquiste di Lenin è stata quella di proclamare, a un certo punto, che la situazione rivoluzionaria è adesso e non in qualche luogo del futuro.
Dimentichiamoci per un momento dell’alto e del basso e concentriamoci su questi verbi: “non vogliono”, “non possono”, “sono pronte” (ad agire, ad andare incontro alla morte). Stiamo parlando qui di una non volontà, di un’impossibilità e della mobilitazione. Vivere nel vecchio modo non è più desiderabile e non è possibile per cui si è pronti a tutto. Questo è quello che io chiamo disperazione.
Il confine tra speranza e disperazione è molto sottile.
Può esserci un momento in cui sono quasi indistinguibili, ma subito dopo questo momento – quando QUESTO non è solo indesiderabile, ma impossibile e assolutamente insopportabile – in breve, quando la speranza scivola via, o piuttosto diventa disperazione – c’è un punto di non ritorno. Solo coloro che sono disperati sono pronti a morire in questa lotta, non perché sperano in un futuro migliore ma perché non possono più vivere nel presente. Disperazione significa semplicemente che le cose non possono rimanere ferme. E qui sta la differenza: finché c’è speranza la vera azione rivoluzionaria viene rimandata.
Esistono tre tipi di speranza:
- che le cose miglioreranno (e quindi dovremmo aspettare pazientemente e non fare nulla, o addirittura sostenere lo status quo – per evitare cambiamenti che potrebbero portare a un esito negativo);
- che le cose miglioreranno se lottiamo (cioè che possiamo rendere il mondo migliore);
- che le cose peggioreranno (ora non sono così male, il futuro produrrà più problemi, seguirà una situazione rivoluzionaria, dobbiamo prepararci ad affrontarla, ecc;)
Il primo tipo di speranza è conservatore e reazionario, il secondo progressivo-riformista (e funziona efficacemente, costruendo un equilibrio tra capitalismo e lotte socialdemocratiche), e il terzo messianico. In questo senso gli operaisti [italiani] o gli accelerazionisti sono convinti che il capitalismo porti inevitabilmente a una catastrofe, che le cose alla fine andranno così male da provocare una situazione rivoluzionaria fornendoci una possibilità: il capitalismo si distruggerà da solo, e noi dobbiamo aspettare questo momento di autodistruzione, oppure affrettarlo.
Il momento della più grande catastrofe e del più grande pericolo è nel futuro (il che significa che il nostro presente, pur non essendo così bello, è ancora, in qualche modo, tollerabile – rispetto, ad esempio, a una catastrofe ecologica che avverrà in un futuro molto prossimo, come è stato mostrato nel recente film Interstellar di Christopher Nolan e in altri film di Hollywood).
Il comunismo catastrofista rifiuta tutti e tre i tipi di speranza. No, questa situazione non migliorerà miracolosamente e noi non possiamo migliorarla e renderla più tollerabile perché il capitalismo è fondamentalmente sbagliato (i piccoli miglioramenti della condizione della classe operaia in Svezia sono bilanciati dall’iper-sfruttamento in India, ecc) – e non può peggiorare perché è già la situazione peggiore, non c’è salvezza.
Questa è la situazione di disperazione, o situazione rivoluzionaria, quando non si può, non si vuole e si è pronti a tutto. Dimentica il futuro, stai lottando non perché speri di migliorare la tua condizione ma perché questa condizione non può essere tollerata. Stai agendo per impossibilità. Una persona disperata può spostare le montagne: non è la speranza a darle questa forza, ma la rabbia, la solitudine, la fame, l’estrema infelicità, il dolore, l’insopportabilità del suo desiderio o del suo bisogno.
Non si ha speranza, si è condannati, ma questo è così fondamentalmente e assolutamente sbagliato e ingiusto, che non si può rimanere in questa situazione disperata e senza speranza, si è spinti ad agire qui e ora, non si può rimandare.
Dal momento in cui ci consideriamo esseri viventi, abbiamo sempre un buon motivo per rimandare l’azione – finché si è vivi c’è speranza (come minimo può accadere un miracolo). Nel regime biopolitico vitalista contemporaneo la vita è riconosciuta come un valore sacro e l’idea di Lenin di essere pronti alla morte per la causa rivoluzionaria suona quasi criminale. Niente, nessuna idea e nessun ideale politico può essere sacro come la vita umana individuale, si dice: ci sono sempre modi di vita e forme di vita alternative che vanno lodate.
Ma cosa succede se non siamo vivi? Lo zombie è colui che è morto, che quindi non ha alcuna speranza, ma ha ancora un desiderio e una coscienza, o un sentimento corporeo, o anche una sorta di istinto o inerzia legata al fatto che l’estrema ingiustizia della sua situazione non può essere tollerata – questa è la disperazione finale. In quanto già morto non può vivere, ed è questo che, paradossalmente, lo rende un non-morto, o un morto vivente. Il suo corpo in decomposizione non è più individuale, non appartiene a nessuna persona. Lo zombie non ha una vita individuale, non ha nulla di cui prendersi cura, eppure non acconsente a riposare, desidera ancora, e il suo corpo impersonale agisce.
Quando pensiamo all’apocalisse zombie tendiamo a identificarci con i sopravvissuti (dimenticando, ad esempio, che nel capitalismo si sopravvive a spese dell’altro – non è già assolutamente insopportabile questo fatto?), ma se non fossimo tra quei felici sopravvissuti? Se fossimo già dall’altra parte? Dimenticate la speranza: la rivoluzione inizia all’inferno.
(traduzione Piero Maestri)