C’è sempre un motivo per il quale troviamo un libro, o lui trova noi, anche se alle volte non è evidente. Alle volte bisogna leggere tutto il libro, far passare del tempo, e seguire il filo sottile che ci segue a lettura finita e che ci porta alla risposta. Quando ho scelto di leggere Umadevi ero incuriosita dalla storia, interessata ai temi; ma solo dopo averlo concluso e dopo averlo lasciato sedimentare ho capito che era la Polonia che mi aveva attratto. Sono andata in Polonia quando facevo il primo anno di università, c’era la cortina di ferro, bisognava andare a Roma a farsi dare il visto dal consolato, bisognava cambiare una quota fissa di denaro e portare dei dollari che venivano cambiati a quattro volte il valore ufficiale, in gran segreto, con il batticuore perché alle volte la polizia tendeva dei tranelli ai turisti. Un bagaglio di ricordi che aspettavano di tornare fino a che hanno trovato la strada di Umadevi.
Il romanzo comincia a Verona, nella biblioteca di un esule polacco: dopo la sua morte la figlia ha trovato un taccuino, e chiede a un professore e traduttore di origine polacca di interpretarlo per lei. Nel taccuino c’è la storia mai raccontata di Michał Mroczkowski, diventato poi Sandro Torelli. Un uomo schivo e riservato fino all’eccesso, che solo sulla carta, e con fatica, riesce a dare voce e corpo non solo alle torture a cui è stato sottoposto prima dai tedeschi e poi dai russi, ma anche alle tragiche e misteriose conseguenze a cui la fuga, prima in India e poi in Italia, non sono riusciti a sottrarlo. Alla storia di Torelli si intreccia quella di Wanda Dynoska, scrittrice e intellettuale polacca che in India ha preso il nome di Umadevi, attivista per la causa di Gandhi e poi per quella tibetana, che si è dedicata alla salvezza e alla cura dei molti rifugiati dopo la seconda guerra mondiale e poi dei molti esuli dal Tibet, dopo l’occupazione cinese.
Non poter conservare il proprio nome. Non voler raccontare e non poter raccontare la propria storia alla moglie, pure amata, e ai figli, pure amati. Ci riesce perfino difficile immaginarlo, che una vita, o una parte di una vita, possa essere stata così dolorosa e così insopportabile da cercare solo la distanza, la dimenticanza. Dentro una stanza piena di libri, con solo al centro un tavolo e una poltrona, si dipana un racconto degli orrori e della cattiveria umana condotto con garbo e delicatezza. Lo stesso che scorre nel rapporto tra la figlia di Torelli e il professore di origine polacca, mentre insieme scoprono la ricchezza e la disperazione di una vita, le strade impensabili che i destini personali intraprendono, il peso del non detto e le spiegazioni quando ormai è troppo tardi.
Il libro è pervaso di un’atmosfera d’altri tempi, come se il raccontare una storia così terribile richiedesse che intorno le si metta della bellezza, la pace di una biblioteca, la quiete di un tè con i biscotti a metà pomeriggio, la luce che si concentra sul taccuino e sul suo lettore. Ma quello che resta è quel senso di impotenza e di tristezza e di scoramento e di rabbia di fronte alla cattiveria e alla perfidia di alcuni – o forse molti – dei nostri simili. Ai quali però non possiamo e non vogliamo sentirci simili. Perché in ogni guerra, in ogni occupazione, in ogni lotta per il potere, che nasca dall’ideologia, dalla religione, dalla scarsità di beni o dal cambiamento climatico, si crea quel contesto che permette alla violenza e alla crudeltà individuali di dilagare senza confini. C’è chi comanda e impone maltrattamenti, sevizie, torture. Ma c’è anche chi li esegue. E magari oltre a maltrattamenti sevizie e torture eseguite come ordini, aggiunge qualcosa di suo. Quel pizzico di cattiveria in più, di vendetta, di crudeltà. Che una volta che il contesto lascia libero sfogo alla violenza, perché non approfittarne? E se si può intimorire qualcuno impaurito dalla persecuzione, perché non usare le minacce? E se con quelle minacce si conquista quel pizzico di potere in più che è proprio indispensabile, benissimo. Ma se invece le minacce non ottengono l’effetto desiderato? Beh, allora bisogna vendicarsi. E forse, almeno in certe situazioni, almeno in certe vite, la bontà e la generosità che pure si incontrano non riescono a portare salvezza.
Tra Umadevi, che cura il corpo e l’anima di Torelli, e il suo persecutore ostinato e senza nome, alla fine sembra vincere il persecutore. E ci viene da pensare che forse, se Sandro avesse raccontato la sua storia, se avesse condiviso quella terrificante esperienza con qualcun altro, se non avesse eretto un muro che pensava potesse proteggerlo e potesse proteggere i suoi cari, se avesse provato a rileggere tutto quello che aveva subito mettendoci della compassione e dell’affetto per sé stesso e per la bontà che nonostante tutto esiste, forse le cose sarebbero andate diversamente. O forse no. Forse di fronte a certe cose anche le parole perdono il loro potere. Comunque nel suo raccontare un tempo che ci sembra passato e lontano, questo libro ci fa guardare il nostro presente, che non manca di orrori, che pratica sevizie e torture non molto lontano da noi, con un po’ più di attenzione. Come se avesse acceso non un riflettore, ma una lampada che illumina una piccola parte, che però è il cuore, il centro di tutto quel male e quella bruttezza. Come a dire, nel caso ce lo fossimo dimenticato, che il male prima che fuori di noi è dentro di noi. E che proprio non dobbiamo scordarcelo mai.