Lydie Salvayre / Intervista

Lydie Salvayre, La conferenza, tr. Lorenza di Lella e Francesca Scala, Prehistorica Editore, pp. 142, euro 15,00 stampa

Di Lydie Salvayre il pubblico italiano conosce già alcune importanti opere, tra cui Non piangere (Pas pleurer, 2014, traduzione a cura di Lorenza di Lella e Francesca Scala, L’asino d’oro, 2016). Con La Conferenza (La conférence de Cintegabelle, 1999) la casa editrice Prehistorica intende iniziare un progetto dedicato all’autrice, che porterà in Italia ciò che ancora non è stato tradotto, facendo di Lydie Salvayre un’autrice di punta del catalogo.

L’intervista si è svolta venerdì 22 settembre 2023, presso l’Institut Français Milano, in occasione della presentazione del libro.

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Quasi venticinque anni fa, con La conférence de Cintegabelle, lei lanciava un grido d’allarme contro il rischio della scomparsa dell’arte del conversare in Francia. Il libro esce adesso in Italia con il titolo La Conferenza, per i tipi di Prehistorica. Non ha preso una grinza. Cosa può significare secondo lei la persistenza dell’attualità del suo testo?

Devo precisare che io dimentico i miei libri, non li rileggo mai. Ciò posto, mi sembra che viviamo un’accelerazione del tempo, un appiattimento generale. Dal 1999 al 2023 non credo che le cose siano molto migliorate, anzi. Per rendersi conto che la conversazione, la lingua stessa, versi in un cattivo stato, è sufficiente ascoltare le quotidiane ritrasmissioni dei dibattiti all’Assemblea Nazionale francese. La lingua della comunicazione, che non è quella della conversazione, è costantemente veicolata dagli influencers su Internet e partecipa di questo processo degradante. Con questo non voglio passare per una critica incondizionata delle nuove tecnologie digitali, ma assisto con preoccupazione ad un impoverimento linguistico e allo sfilacciarsi del tessuto sociale che lo accompagna. Un processo che nessun network riesce a contenere, anzi. Mi viene in mente a questo proposito un libro di Roland Gori, La fabrique des imposteurs (uscito nel 2011 in Francia, pubblicato in Italia nel 2018 con il titolo…), in cui si analizza la lingua che si rivolge alla massa, il globish, una lingua senza storia, che rischia di contaminare il linguaggio nella sua interezza. Ecco, la letteratura e la conversazione sono il contrario del globish: non hanno, per scopo, la vendita e la sopraffazione.

Una delle ragioni per cui il suo è anche un libro divertente sta nella natura paradossale dei suoi personaggi: uno pseudo-intellettuale di provincia; la sua musa, se così possiamo definirla, defunta ed obesa; il macellaio tuttologo, Tribulet. Perché questi paradossi?

Sì, il mio conferenziere è un paradosso in sé. Ma l’ho fatto così perché una cosa che mi diverte tantissimo è il divario tra i bei discorsi che noi tutti possiamo tenere su tale o tale nobile causa – una guerra, l’uguaglianza, la libertà, la crisi climatica… – e ciò che, concretamente, facciamo ogni giorno per quella nobile causa. Nella vita di tutti i giorni siamo costretti ad apparire. Pochi sono i Rimbaud capaci di mollar tutto e partire per l’Abissinia! Ma scrivere è resistere, ed è nella scrittura che si può misurare una coerenza tra idee e atti. Del resto, il conferenziere non è la sola figura paradossale del libro. Anche Lucienne, la sua defunta moglie, lo è. La grassa Lucienne, la volgare e tendenzialmente muta Lucienne. Lo scrittore e giornalista Alessandro Zaccuri (moderatore dell’incontro all’Institut) l’ha definita “rabelaisienne” (in L’Avvenire, 22 settembre 2023). Sono così felice di questo epiteto! Lucienne ha di Rabelais il lato volgare, terreno, ed è totalmente estranea all’erudizione, al sublime che pure esistono in Rabelais. Il contrario della fragile musa che ci si potrebbe aspettare. E poi c’è Tribulet: è il maestro della calunnia, dell’insinuazione, è l’esempio della lingua meccanizzata. È il tipo di uomo che attende l’ordine di un superiore, come un cane attende che il padrone dica “Attacca!”. Tribulet è anche l’antitesi della conversazione nella misura in cui rifiuta il silenzio, che è un elemento costitutivo di quell’arte.

In che modo conversazione, lingua e letteratura si legano? Quale minaccia pesa su di loro, oggi?

Ingeborg Bachmann diceva che “Letteratura” è perdersi nei vicoli di una città. Se è così, il best-seller è l’autostrada. La lingua del best-seller è la lingua della comunicazione, alla quale accennavo prima: una lingua piatta, senza storia, che vuole solo vendere, che non ascolta l’Altro. La conversazione, come la letteratura, è fatta di digressioni e di silenzi, di ascolti e deviazioni per sentieri. “Conversare” è ‘legarsi all’altro’. Allora io mi chiedo quanto ci si possa legare all’Altro attraverso uno schermo.

Ci sono autori italiani con cui lei “conversa”?

La “conversazione” che si può avere con gli autori è una delle meraviglie della Letteratura. Innanzitutto direi Gadda. Di lui ho letto quasi tutto. In lui, come in Rabelais, c’è la coesistenza del sublime e del volgare, in una lingua estrema, paradossale, divertente. È un autore che trovo divertentissimo. Citerei anche Leopardi, Pavese e Calvino.

Qual è il suo rapporto con la lingua?

A casa parlavamo il “fragnol”, un misto di francese e spagnolo. Poi c’era il francese della strada, con i compagni di scuola. Non mi voglio dilungare su questo, ma eravamo poveri. Poveri. E poi c’era questa lingua strana, un’altra lingua straniera per me, che era il francese dei Classici. Su quella lingua mi sono buttata come una malata, per impararla ad ogni costo. Il timore di dire male qualcosa, di non usare la parola giusta, mi perseguita ancora oggi. Ho così tanti scrupoli a parlare, proprio per il terrore di fare errori. Proprio perché non so parlare, mi sono messa a scrivere. Quando scrivo, cerco di fare in modo che tutti i registri linguistici, tutte le lingue che ho orecchiato, si intreccino. Tengo in orrore la lingua “media” del signor Tribulet. Mi piacciono gli estremi. Gadda diceva che il linguaggio si reinventa, in strada. Non so che cosa ne sia oggi, ma mi piace quest’idea.

Un’ultima domanda: c’è qualcosa che vorrebbe dire ai lettori italiani, in occasione dell’uscita della traduzione (a cura di Lorenza Di Lella e Francesca Scala) di La conférence de Cintegabelle?

Sì: che la casa editrice Prehistorica, nelle persone di Gianmaria Finardi e Giulia Mondini, è meravigliosa. Gianmaria e Giulia sono straordinari e li ringrazio tanto.