Pubblicato in Francia nel 1999, La conferenza di Lydie Salvayre arriva adesso in Italia, per i tipi di Prehistorica, nella bella traduzione del tandem Lorenza Di Lella e Francesca Scala. Nel passaggio dall’una lingua all’altra è scomparso il toponimo campeggiante nel titolo originale: La conférence de Cintegabelle. Si capisce: un lettore italiano poco dimestico di cose francesi non saprebbe come decifrare quei segni, neanche dar loro una pronunzia corretta (ve la caverete con un onesto sant-gabèl). Nel fatidico momento del primo impatto con l’oggetto è bene puntare su altro. Per questo la copertina rosa fa da sfondo all’azzeccatissimo calligramma di Apollinaire a Louise de Coligny-Châtillon, detta Lou – strizzatina d’occhio alla defunta moglie del conferenziere, Lucienne (Lulù). Giova però ricordare che Cintegabelle, cittadina del Tarn-et-Garonne (regione di Tolosa) è luogo d’infanzia di Salvayre e, cosa non del tutto ignota al pubblico francese della fine degli anni ’90, circoscrizione che lanciò la carriera politica di Lionel Jospin, allora primo ministro socialista in un’inedita esperienza di coabitazione con il presidente Jacques Chirac.
Questo per dare un’idea della dimensione politica del libro che avete in mano e che è bello e sconfortante riscoprire dopo quasi un quarto di secolo. Non ha preso una grinza, purtroppo. Marzo 1999: un anonimo conferenziere, vedovo da un paio di mesi, tiene una conferenza sull’arte della conversazione. Siamo nella sala delle feste del piccolo comune di Cintegabelle, in cui – oltre a ciò che già sappiamo – dobbiamo riconoscere la quintessenza della provincia francese profonda. La satira sociale, che vena il discorso denunciando l’arrivismo, l’ipocrisia dell’ambiente letterario parigino, la corruzione politica, parte da qui ed è bene non dimenticarlo.
Dopo un breve preambolo, la conferenza si articola in tre parti di diversa lunghezza: i vantaggi della conversazione, le condizioni indispensabili perché possa prosperare, i cinque tipi più comuni di conversazione – il tutto condito da un certo numero di assiomi, i primi dei quali confermano il carattere franco-francese che il testo aveva originariamente: “La conversazione è una specialità francese” e “La conversazione è in declino”. In altre parole: è urgente salvare la Francia, attraverso la riattivazione di uno dei suoi elementi costitutivi, ovvero l’arte del conversare.
In questo senso, si può leggere oggi La conferenza come un documento storico, una fotografia di ciò che la Francia era alla fine del secolo scorso: una nazione che, apparentemente, aveva il vento in poppa. La tanto strombazzata vittoria ai Mondiali di calcio del ’98 esprimeva il trionfo di una Francia “Black-Blanc-Beur” imbattibile sul campo, su ogni campo, perché coesa socialmente. Il paese dell’integrazione riuscita e della concordia, con un presidente di destra e un governo di sinistra – anzi, di gauche plurielle. Ma Salvayre già allora puntava il dito sul rovescio della medaglia: “Spingendo gli esseri umani a concentrarsi su cose elevate, distogliendoli dall’accumulo di oggetti inutili, strappandoli ai varietà televisivi, alla nazionale di calcio, allo spettacolo del sangue e a tutti gli altri diversivi con i quali cercano di alleviare la loro tristezza, la conversazione accentua considerevolmente la natura democratica della loro coscienza”.
Passaggi come questo permettono al libro di superare i limiti spaziali e temporali della prima pubblicazione e di assumere un carattere attuale e globale. Non viviamo forse circondati di solitudine, oltretutto reduci da una pandemia? E non dialoghiamo forse – quando lo facciamo oralmente – con persone di rado presenti nella nostra stessa stanza, sempre per interposti schermi e tutti più o meno servi di regimi di natura mediatica? Con tutto ciò, durante La conferenza si ride e si sorride. Per il tono spumeggiante; per la franchezza, che non è mai grossolanità; perché è effettivamente cruciale chiedersi se, in un mondo dominato dalla cibernetica, “sarà ancora possibile avere un’erezione, e in che senso” – “e toccarsi? e penetrarsi?” .
Ci si può chiedere, anche, perché Salvayre abbia scelto la forma del monologo per tessere l’elogio della conversazione. È un genere particolarmente presente nell’opera dell’autrice (si vedano ad esempio Petit traité d’éducation lubrique, Cadex 2008, e il recente Irréfutable essai de successologie, Seuil 2023 – entrambi non tradotti). Nel caso de La conferenza all’intento argomentativo si sovrappone un tormentato filo narrativo di cui Lucienne, la defunta moglie del conferenziere, è la protagonista. Il suo ricordo, in particolare il ricordo della sua morte, provoca lunghe digressioni. Lucienne è la metà assente di un tutto. Un corpo, innanzitutto: una “ciccia”, una “culona”: “Vacca, le dicevo, mentre dentro di me la chiamavo Venere callipigia”. Lulù è agli antipodi di ciò che potremmo attenderci dalla musa ispiratrice di un raffinato oratore: grassa, volgare e pure generosa del suo silenzio, “un silenzio interrotto a tratti solo dal rumore delle sue mandibole e da qualche timido rutto”. Nella fine di questo matrimonio tra un sedicente brillante conversatore e questa rozza e adiposa presenza si può riconoscere il distacco tra due umori costitutivi della Francia: Parigi e la provincia, variante transalpina del machiavelliano conflitto tra Popolo e Grandi. “Si può ingannare un popolo a lungo, ma non lo si può abbindolare per sempre”, chiosa a questo proposito uno degli assiomi della conferenza.
Nel ricordo della defunta Lucienne si può leggere dunque il requiem di una società ed il presagio dell’epoca di tumulti che stiamo vivendo, effetto del fallimento della conversazione politica sui cui dovrebbe poggiare la salute di ogni repubblica.