È sempre affascinante entrare in un romanzo americano. I paesaggi, gli oggetti e soprattutto i pensieri. Sono i pensieri, e le parole con cui vengono espressi, a fare una cultura. E l’immaginazione. Che ha tanta parte in Prendere o lasciare, romanzo di Lydia Millet che svela qualcosa dell’America che forse sappiamo e forse no, ma che è importante tenere presente.
La protagonista del romanzo si chiama Nina e fa l’agente immobiliare a Los Angeles. Tratta dimore incredibilmente costose per clienti incredibilmente ricchi. La prima casa che vediamo con lei è una villa con piscina aggrappata a un canyon scosceso, sulle colline dietro Los Angeles. Vista imperdibile sulla città. Piscina dall’illuminazione psichedelica. Le 120 giornate di Sodoma nascoste in un cesto nel bagno padronale.
I primi acquirenti sono un giovane con un berretto di finto leopardo, accompagnato da altri due giovani, uno che guida la macchina e l’altro che sembra fare da guardia del corpo. Il giovane non ha chiesto un mutuo e ha detto che paga tutto subito. Forse anche per questo Nina si immagina sia un dittatore africano. Di quelli che hanno accumulato genocidi e ricchezze in pari quantità. Il presunto dittatore, mentre gli altri due fanno il giro della casa e vengono invitati a guardare le finestre e i particolari, si ferma davanti alla piscina. E in un attimo in cui nessuno guarda, nella piscina cade, o si butta, e resta dentro, immobile. Ma per fortuna i due accompagnatori sono veloci, lo tirano fuori, e con grande sforzo lo rianimano. Nina chiama l’ambulanza. Tutto si risolve per il meglio.
Ma il tempo breve in cui tutto questo si consuma è sufficiente per svelare che il giovane presunto dittatore caduto nella piscina è un musicista, e le presunte guardie del corpo e autista sono i musicisti della sua band. Ed è sufficiente perché il presunto autista, (Lenny) un nero maestoso, parli con Nina e la affascini con la sua voce oltre che con i rami di ciliegio che ha tatuati sul petto, con i fiori bianchi. Lenny e Nina si telefonano, escono insieme e si innamorano. Lenny è gentile, delicato, quasi a compensare la sua stazza. Nina riscopre quanto sia bello amare, con slancio e semplicità.
Intanto, nelle altre ville di L.A. oggetto di compravendita, altre vite si spostano e cambiano. La vecchia signora che lascia una casa molto amata per trasferirsi nella dependence della villa del figlio. La baby sitter improvvisata che riesce finalmente a sfuggire agli abusi del patrigno. L’adolescente che ha provato di tutto per evitare la vendita della lussuosa casa dei genitori che si sono separati. La vampira che tiene scoiattoli e altri animali nel congelatore e cerca una/un vampiro a cui vendere la proprietà. E la signora che pensa di abitare con i sette nani, purtroppo ormai cresciuti e diventati troppo invadenti.
Un catalogo di bizzarrie che certo attingono all’immaginazione ma che altrettanto certamente hanno radici nella vita reale e nella reale stranezza delle persone. Soprattutto in una società come quella americana che, pur essendo rigida e categorica come poche altre, ha un’infinita tolleranza verso le stramberie individuali. Purché restino individuali, e non vadano a intaccare il business e i soldi. Anzi se business e soldi se ne avvantaggiano, ben vengano. Anche se molto spesso, per non dire sempre, quelle stranezze sono il vestito di fragilità, ferite, sofferenze e inadeguatezze che non hanno trovato un altro spazio e un ascolto. Quando del tutto per caso lo spazio e l’ascolto si aprono, insieme al dolore e alla sensibilità emergono gentilezze, delicatezze, tenerezze e dolcezze preziose e bellissime. Che vanno anche a compensare un uso dell’immaginazione che è personale fino al parossismo e che è così privo di valori e conoscenze da vagare nel vuoto e disorientare ulteriormente. Mentre l’immaginazione che ci può salvare, che ci fa costruire il futuro, è quella guidata, condotta con rigore e disciplina. Quella che poggia su valori, saperi e approfondimenti.
Lasciar razzolare l’immaginazione in totale libertà rischia di farci perdere. E il totale disorientamento dei personaggi rispecchia sicuramente la realtà. La rispecchia anche involontariamente. E anche se proviamo affetto e comprensione verso di loro, ci resta il senso di una sprovvedutezza, di un’inconsapevolezza un po’ pericolosa. Ma poi ci sono le case. Le case che sono tante e diverse come le vite. Quelle amate e rimpiante, lasciate per cause di forza maggiore; quelle felicemente fuggite insieme agli abusi che vi si consumavano; quelle pensate e mai realizzate; quelle fredde come chi le abita, e quelle accoglienti. Le case che anche se passano di mano in mano in fretta, quasi fossero abiti, conservano la storia di chi ci ha abitato, e ne lasciano una traccia per chi arriva dopo.
Le case che possono raggiungere delle cifre impensabili, in certe zone degli Stati Uniti. In California i loro prezzi sono una delle cause dell’aumento del numero di homeless. Ci sono homeless che lavorano ma non guadagnano abbastanza da potersi permettere un’abitazione. Ci sono anche homeless impiegati nelle start up della tecnologia, nella Silicon Valley e dintorni: dormono in macchina perché la casa che di possono permettere dista due o tre ore di strada dal luogo di lavoro. Le case sono quindi anche il luogo dell’ingiustizia sociale, del grande divario tra ricchi e poveri, sempre più incolmabile e sempre più generatore di effetti perversi.
Ecco, anche da un romanzo che non ha intenti particolari, che indaga nell’animo e nell’intimità delle persone, che mette a confronto la realtà e l’immaginario in una dimensione appunto del tutto privata e individuale, anche da un romanzo “innocente” appare il ritratto di un’America alla deriva, prigioniera dell’estremizzazione e della nemesi di quegli stessi valori che l’hanno fatta grande e l’hanno resa irresistibile. E quindi oltre alla bellezza della lettura, della scrittura, della delicatezza e dell’umanità che pervadono le pagine, possiamo concederci anche qualche riflessione in più. Che si sa, è il mestiere della letteratura.