“L’utopia possibile”: un ricordo di Luis Sepúlveda

Luis Sepúlveda l’ho appena sfiorato. Un incontro fugace, al termine della presentazione di un suo libro, entrambi sballottati come navigli nei marosi d’un’orda di fan a caccia di dediche. Giusto il tempo di stringergli la mano, guardarlo negli occhi e mormorargli appena un “Grazie”. Lui non me ne ha chiesto la ragione. Ha reso acuto lo sguardo, e con un lieve cenno del capo ha accentuato la stretta.

In quell’unica parola era condensato un mondo di sensazioni che non potevo né volevo esplicitare in quella bolgia, e mi piace pensare che lui l’abbia pienamente compreso. I silenzi e gli sguardi sanno essere più eloquenti di mille parole, lo sappiamo.

In realtà, intendevo ringraziare l’uomo oltre che lo scrittore, per il suo ruolo di pervicace testimone di un’epoca scomparsa, di messaggero di valori umani ormai boccheggianti nello squallido tempo in cui ci è dato di agire. Intendevo ringraziarlo per quel suo essere irriducibile guerrigliero della vita, esule e combattente ecologista, instancabile viaggiatore dal passo ostinato e ribelle. E per uno dei suoi tanti aforismi, che esprime un concetto di relativizzazione della letteratura che trovavo tanto umile quanto saggio: “I libri non cambiano il mondo. Lo fanno i cittadini”.

Ma Sepúlveda ha anche saputo raccontare come pochi le putride cloache del potere, i fetidi grovigli della politica, la storia sanguinosa del Novecento, di cui aveva fatto tremenda esperienza diretta. Dunque, era anche un uomo che si sostanzia nella scrittura, che vive la sua esistenza, il suo tempo, la sua arte con unità d’intenti e naturalezza; con dolore, certo, ma senza cesure, con una limpidezza morale che, agli occhi stolti d’un contemporaneo, ha del prodigioso. Un uomo che vive e opera con la tensione morale d’un utopista disposto a sacrificare financo se stesso per un ideale.

Questo è ai miei occhi Sepúlveda. Per temperamento, per l’idea che ho di letteratura, dei suoi oltre venti libri ne ho amato uno in particolare, anche per il titolo che così bene ne descrive l’autore: Storie ribelli (Guanda, 2017). È una silloge di pezzi quasi tutti già apparsi altrove, scritti militanti in cui compare la truce figura dell’infame Pinochet, creazioni che urlano a un mondo ormai sordo una vicenda umana, politica e civile incrostata del sangue e del fango della Storia, narrazioni personali e corali intessute con l’arte della semplicità e dell’immediatezza, un magnifico arazzo i cui fili sono i temi immortali dell’esperienza umana: l’amore e l’amicizia, la memoria e la solidarietà, la giustizia e l’uguaglianza, la lotta per la libertà e la difesa degli ultimi.

La raccolta si apre con un magistrale cuento inedito, “11 settembre 1973: e ‘Johny’ prese il fucile”, il cui titolo evoca un film statunitense che narra le vicende di un reduce del Vietnam. Inizia così, nella traduzione di Ilide Carmignani, voce italiana dello scrittore cileno, con una descrizione secca, dal passo e dalle incisive cadenze hemingwayane (non a caso scrittore da lui amato), dell’alba di un giorno che marcherà con una ferita indelebile il suo autore e un intero Paese, spaventosa faglia che attraversa tutto l’Occidente, e che simbolicamente sancirà la fine di un’epoca e del sogno democratico e libertario che l’aveva accompagnata:

“Il giorno più nero della storia del Cile spuntò coperto di nuvole. La primavera alle porte, atterrita dall’orrore che si avvicinava, aveva deciso di negarci i primi tepori. Alle sei del mattino Salvador Allende, il Compagno Presidente, ricevette le prime informazioni sul golpe imminente e diede ordine alla scorta, al GAP, di lasciare la residenza di calle Tomàs Moro per raggiungere il palazzo della Moneda. Un contingente del GAP – Gruppo di Amici Personali – rimase a garantire la sicurezza della residenza e il resto si mise in marcia armato di kalashnikov”.

Il racconto è una resa d’onore verso un ragazzo di 21 anni, Óscar Lagos Ríos, il più giovane della scorta del presidente Allende. Con altri dodici compagni, “Johny” decide di non abbandonare il Presidente, spara sino all’ultimo colpo contro i golpisti che hanno assalito il palazzo presidenziale, poi s’arrende. Caricato su una camionetta, sparisce nel nulla. Fin quando, anni dopo, si rinverranno in una fossa comune dei frammenti delle sue ossa. Quel ragazzo che amava cantare, nell’allegria dei suoi vent’anni e nella gioia di dedicare la vita ad un ideale, da Allende era stato ribattezzato “Johny”. Aveva preso il fucile, quando andava fatto, e poiché “è impossibile ridurre al silenzio i combattenti”, con un atto di giustizia poetica e morale Sepúlveda ne ha disseppellito il ricordo dalle gore dell’oblio, restituendolo al mondo e perpetuandone la memoria. Lui lo sapeva bene, ne portava le ferite: con la Storia non si scherza. Tutt’al più si trasmette, anzi, trasmetterla è un dovere etico imprescindibile, ed è questo il lume della sua scrittura.

Ecco, il concetto dell’arte per l’arte non ha mai fatto breccia nel cuore e negli intendimenti di Sepúlveda. Quel vuoto ideale non può sfiorare la coscienza d’un uomo che ha visto torturare, morire e sparire nel nulla i propri compagni di lotta, un uomo che ha marchiate a fuoco nell’anima le peggiori nefandezze di cui gli individui sono capaci, un uomo costretto a vorticare per il mondo in quanto reso apolide, perché il suo Paese gli ha negato persino un’identità. L’arte, dunque, non può che essere una finestra aperta sulla storia, uno strumento per smascherare le falsità, gli inganni, le ipocrisie, le violenze e i soprusi che ci annegano; una finestra cui affacciarci per capire davvero la realtà, una forza in grado di strappare il velo che ci obnubila e ci confonde. Primo, ineludibile passo da intraprendere, se si vuole davvero trasformare il mondo.

Questa l’arte, per Sepúlveda, che si definiva un “preservatore della memoria”. Questo il compito che si era assegnato come scrittore: tenere viva la memoria di quanto è successo, ribellarsi alle false riconciliazioni, alle storture, alle falsificazioni: dire sempre una parola di verità. Perché nella storia ci sono momenti che non possono essere prescritti e dimenticati, e scrivere significa ribellarsi a questa regola ipocrita di oblio del passato, di rimozione delle ferite.

E, da autentico scrittore, Sepúlveda si è servito di ogni genere letterario per raccontare l’atroce vicenda umana: romanzo realistico, fiaba, giallo, noir, reportage, biografia, testimonianza documentaria. I titoli dei suoi libri, molto glamour, gli hanno forse nuociuto agli occhi di una critica miope e sprezzante, in cronico sospetto davanti al successo commerciale. Ma egli è sempre rimasto fedele al suo ideale, sin dall’esordio, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore (Guanda, 1993), dedicato a Chico Mendes, romanzo di poetica denuncia che mette a frutto le esperienze fatte nella foresta amazzonica vivendo per sette mesi con gli Indios Shuar, costruito sui temi del coraggio e della sconfitta, della Natura con le sue insormontabili regole. E come non ricordare Il mondo alla fine del mondo (Guanda, 1994), descrizione d’una terribile realtà di sterminio ecologico, l’orrenda mattanza delle balene, narrata dall’osservatorio privilegiato del ponte d’una nave di Greenpeace, organizzazione alla quale egli aveva aderito sin dagli anni Ottanta. O ancora, La fine della storia (Guanda, 2016), coinvolgente spaccato novecentesco scritto per “fare memoria”, per “combattere coloro che difendono l’amnesia come ragione di stato, come si volle fare in Cile”, e dedicato a Carmen Yànez Sonia, sua compagna e scrittrice, la prigioniera 824 passata dall’inferno di Villa Grimaldi, uno dei più feroci luoghi di tortura e di sterminio della dittatura cilena. E così via.

Il mondo letterario di Sepúlveda è un’ininterrotta denuncia dell’oscurantismo e dell’idiozia, la rappresentazione dell’eterna lotta tra il bene e il male, narrata con una lingua lieve eppure incisiva, piana ma dal peso specifico enorme, dotata d’una singolare capacità di seduzione (lo si legga in originale) e capace di edificare davanti agli occhi abbagliati del lettore il magnifico, tragico teatro della vita. Il medesimo delle sue favole, intessute degli stessi ineludibili valori di solidarietà, amicizia, empatia, rispetto per la diversità. Perché, come egli sosteneva lucidamente, la rivoluzione definitiva da intraprendere è quella dell’immaginario: solo così si può creare una società migliore, non fondata sul lucro, sull’egoismo e sull’individualismo irresponsabile, sul dominio del più forte. È questo il senso più profondo delle sue fiabe, scritte con un garbo e una levità di tocco davvero pregevoli, che hanno lasciato un segno distintivo nella letteratura per l’infanzia.

Dunque, sogno, utopia, realtà: in questa inesorabile progressione c’è tutto Sepúlveda. La sua vita, la sua opera, rappresentano un percorso di crescita che, partendo dal desiderio giovanile di diventare un drammaturgo affermato, giunge al concreto e fattivo impegno sociale e politico: un tragitto di crescita umana e di presa di coscienza civile che ricorda quello intrapreso da tanti giovani italiani durante la Resistenza, e che ce lo rende ancora più caro.

Sepúlveda andava molto fiero delle sue esperienze nel ’68 cileno (il quale, come amava ricordare, comincia nel 1967 e si esaurisce il 4 settembre del 1970 con l’elezione di Allende a presidente del Cile). Una vicenda politica e umana straordinaria, la partecipazione attiva al sogno di emancipazione del governo dell’Unidad Popular “dell’indimenticabile compagno Salvador Allende”, condotta nel titanico sforzo di realizzare una società libera e democratica, all’insegna della giustizia e dell’uguaglianza. E dell’allegria, elemento non così centrale nel ’68 europeo. Un sogno, certo, un’utopia, annichiliti dalla realtà, dalla storia. Ma la vita e l’arte di Sepúlveda hanno conservato una fede incrollabile: che quella rimanga “un’utopia possibile”. E questo, forse, è il più grande insegnamento che ci ha lasciato.

Vorrei concludere questo inadeguato ricordo non con le mie parole, bensì con le sue:

“Sono agnostico e per me la vita è una bella sfida. E dato che ho la fortuna di saper interconnettere dialetticamente tutto ciò che accade (sono marxista), non ho mai avuto né bisogno di inganni religiosi, né di ricerche della luce per sapere dove sta il cammino che voglio percorrere”.

Addio, Lucho. Che la terra ti sia lieve.