L’uomo non buono e il mostro

L’antropologia negativa dell'uomo non buono può salvare la sinistra, è la leva giusta per risollevarne le sorti? Oppure il nostro sguardo si deve rivolgere al mostro, sottratto all'omologia e alla dialettica.

Una scelta felice quella della matita di Andrea Salvino a signoreggiare in copertina con Hans Beckert, l’uomo non buono par excellence che perora la sua causa di mostro[1] davanti al tribunale imbastito per l’occasione in una fabbrica deserta dai criminali, dai mendicanti e dalle puttane della città: «chi può sapere come sono fatto dentro e cos’è che sento urlare nel mio cervello e come uccido?!» Una confessione accolta da un silenzio di pietra dagli astanti nel mentre viene proferita e che la stessa ragione, finanche quella del più freddo e spietato dei criminali presenti, Schranker, si rifiuta di accogliere. Dunque non sa rispondere il tribunale improvvisato che quest’ultimo presiede e nulla sappiamo della risposta della giustizia ordinaria che Fritz Lang, il regista de Il mostro di Düsseldorf, preferisce lasciare in sospeso.

L’immagine di copertina però è largamente ingannevole. Hans Beckert non è la maschera de L’uomo non è buono[2], non è la sua persona come a un primo sguardo il lettore un po’ distratto potrebbe pensare. L’antropologia negativa ha sempre avuto in mente un’altra tipologia umana per accreditare la sua filosofia morale. L’individuo asociale ed egoista, l’homo homini lupus dell’hobbesiano stato di natura, non ha le fattezze di Hans Beckert “un piccolo borghese infantile che mangia mele per strada e che nessuno sospetterebbe capace di uccidere una mosca”[3]. E neppure possiamo ascrivergli una qualche personalità, ancor meno afflitta da turbe psichiche essendo una macchina (umana) guidata da una legge di natura che gli insegna a calcolare le conseguenze delle sue azioni e gli impone di evitare la morte e di perseguire la propria autoconservazione. Non malvagio in assoluto, piuttosto non buono per natura come recita per l’appunto il titolo. Altrimenti non si capirebbe il confronto che i coautori di questo libro collettaneo, per l’occasione interpreti del pensiero dell’antropologia negativa, cercano con questo uomo non buono “in convergente disaccordo con Marx, in divergente accordo con i conservatori”[4].

Per la sua esclusione dall’ordine della ragione, nessuno di loro ha cercato invece un dialogo con l’Hans Beckert di qui sopra.  Prendiamo la sua paura. La riconosciamo nel suo sguardo terrorizzato, di animale da preda in fuga dai suoi inseguitori e davanti alla parete umana dei suoi giudici.

Anche gli uomini non buoni di Hobbes ne sono afflitti solo che la loro paura produce relazione e unione. Soprattutto non sta dalla parte dell’irrazionale, ma della ragione. Siccome la condizione che genera la paura è insopportabile, è al diritto che viene piegata e del diritto rappresenta il carattere liminare e ambiguo. Secondo la nota formula latina ex facto jus oritur, questa paura è il fatto da cui il diritto scaturisce. E del diritto, non a caso, rappresenta il principio di effettività.

La critica comunista del diritto ci dice – invece – che il principio di effettività che è alla sua base è “il più mostruoso strumento di conservazione che sia dato conoscere”[5]. A suo presidio c’è il tribunale che, come diceva Pašukanis, evoca certamente la controversia tra privati ma più ancora l’autorità pubblica dello Stato e il suo ordinamento giuridico normativo. Sempre, anche quando a istituirlo sono i reietti in nome della giustizia popolare, come nel caso di Hans Beckert. E infatti il tribunale del popolo che in prima istanza lo giudica non è diverso da quello di Stato, almeno nella sua organizzazione: i giudici che siedono dietro un tavolo, la giuria che vuole giustizia e l’accusato. Ma qui la forma dice la sostanza. Funziona veramente così la giustizia popolare, con un tribunale siffatto?[6] Gli è che a monte della sua istituzione ritroviamo la vecchia paura.

Se L’uomo non è buono al mostro neppure accenna, è perché le due tipologie umane vi vengono confuse. La cancellazione del mostro passa attraverso la sua identificazione con l’uomo non buono, che poi è il cattivo per natura di Hobbes. È solo quest’ultimo che si contrappone al “buono per natura”[7]. L’un contro l’altro armati e… tertium non datur.

Si respira un’aria trontiana in questo contenzioso sul destino ultimo della sinistra che Tronti ha sempre cercato di far rinsavire attingendo a piene mani nel pensiero conservatore del primo Novecento, quello dei Keynes, dei Mahler, dei Musil, tutti campioni della “grande coscienza borghese contemporanea, quella critica e distruttiva”[8]. Ma più di tutti, il pensiero di Schmitt con la sua lettura hobbesiana del XX secolo come il tempo della guerra civile europea: guerra tra Stati e guerra di classe all’interno di ogni Stato. Di quest’ultima Tronti aveva offerto una chiave di lettura con la rivoluzione copernicana di Operai e capitale. Ma dopo che questa guerra civile si è conclusa, eccolo proporre un cambio di paradigma. Un vero e proprio work in progress con l’autonomia del politico come prima tappa, la politica al tramonto a seguire, per concludere con l’interrogazione della trascendenza e del religioso[9]. E sempre in compagnia dei maestri del realismo politico, vale a dire Machiavelli, Hobbes, Schmitt e, a sorpresa, Kant collocato per l’occasione in questa tradizione di pensiero[10]. Per dire che alla scuola del realismo politico Tronti è stato iscritto da sempre, era il suo vanto.

L’uomo non è buono ne riprende il programma di rifondazione della sinistra dopo che questa, in tutte le sue articolazioni, ha raggiunto il punto più basso della sua crisi. La leva per risollevarla – sì, datemi una leva e vi solleverò il mondo – andrebbe dunque cercata in quel realismo politico e nella sua antropologia negativa ché quella positiva, che crede l’uomo “ontologicamente buono o comunque tendente al bene”[11], altro non sarebbe che l’acqua sporca in cui la sinistra è affogata.

L’uomo non è buono si presenta quindi come un contributo per la riuscita dell’operazione, anche al di là degli interessi reali dei singoli autori, ad esempio Piperno e il De Feo di M. Spagnuolo[12] arruolati forzatamente nell’impresa. Nessun dubbio, ovviamente, sulla legittimità a intraprenderla questa rifondazione ché la sinistra, non foss’altro per la sua storia, meriterebbe comunque quest’ultima chance. Più di un dubbio, invece, sulla strumentazione scelta. Veramente l’antropologia negativa può salvarla, è la leva giusta per risollevarne le sorti?

A cercare nell’immagine di copertina, la risposta è sì se nella figura di Hans Beckert vogliamo scorgere il cattivo per natura di Hobbes ed è ciò che Tronti fa quando associa alla sinistra la libertà come “conquista portata avanti da un’autorità [grassetto nostro] che viene liberamente riconosciuta”[13]. Ancora l’Ordine costituito, ancora il Potere, ancora la Legge, ancora il Tribunale.

La risposta è no se in Hans Beckert scorgiamo il mostro che è, sottratto all’omologia e alla dialettica[14] e che la sinistra conosce bene avendolo incontrato nelle rivolte e nelle lotte degli ultimi settant’anni. Ma sempre schierata – ahimè – dalla parte dell’Ordine, del Potere, della Legge e dei Tribunali.

Leggi anche:  Evgenij B. Pašukanis / Diritto e rivoluzione

NOTE

[1] Il mostro di Düsseldorf è il titolo del film di F. Lang (1931).

[2]  Aa.Vv. (a cura di) V. Marchio, L’uomo non è buono. Per la critica del progresso, Machina Libro / DeriveApprodi, Bologna 2024.

[3] S. Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Lindau, Torino 2001, p. 282.

[4] Ivi p. 6.

[5] Aa. Vv. (a cura di) C. Donati, Dizionario critico del diritto, Savelli Editori, Milano 1980, p. 111.

[6] Se lo chiedeva Foucault in Microfisica del potere, Einaudi editore, Torino 1977, p. 72: “Stabilire un’istanza neutra fra il popolo e i suoi nemici, suscettibile di definire la distinzione fra il vero e il falso, il colpevole e l’innocente, il giusto e l’ingiusto, non è una maniera d’opporsi alla giustizia popolare? Una maniera di disarmarla nella sua lotta reale a profitto di un arbitraggio ideale?”

[7] C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, p. 143.

[8] M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi editore, Torino 1973, p. 14.

[9] M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli Editore, Milano 1977; La politica al tramonto, Einaudi editore, Torino 1998; Dello spirito libero, il Saggiatore, Milano 2015.

[10] L’uomo non è buono, cit., p. 115.

[11] L’uomo non è buono, cit., p. 5.

[12] Ivi, F. Piperno, L’uomo non è buono: il coronavirus, il capitale, lo Stato, le mucche e noi; M. Spagnuolo, Sovversione e liberazione in Massimo De Feo.

[13] Ivi p. 129.

[14] (a cura di) U. Fadini, A. Negri, C. T. Wolfe, Desiderio del mostro, manifestolibri, Roma 2001.