L’ultimo Ceronetti, a meno di un anno dalla sua scomparsa, ci ha lasciato una corposa serie di compilazioni miscellanee di brani (in gran parte da lui tradotti) su argomenti che gli stavano a cuore, e che già avevano animato il suo particolarissimo teatro; vere monografie antologiche orientate secondo il taglio e il piglio eterodosso del “marionettista sensibile”: la precedente era dedicata al Messia, questa alla rivoluzione del 1789. Una Rivoluzione però guardata da uno spiraglio particolare della storia: La rivoluzione sconosciuta, prende le mosse, come ci viene spiegato dall’autore stesso in una pagina introduttiva, da una frase ripresa dal Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline: “Tutto quel che è interessante avviene nell’ombra, decisamente. Nulla si sa dell’autentica storia degli uomini”. Una rivoluzione occulta dunque, quanto trapeli dei moventi e degli afflati segreti che l’hanno determinata e l’hanno mossa, nelle percezioni e nelle riflessioni di precursori, contemporanei e posteri. A giudicare dalla scelta del riferimento di partenza e del suo autore, Céline, grandissimo scrittore – almeno all’epoca del Viaggio – ma uomo e “pensatore” da prendere con molle e contromolle, ci verrebbe da pensare a una dietrologia cospirazionista fatta di massonerie e di Illuminati tramanti nell’ombra, che ben si intonerebbe all’antisemitismo becero, alla mitologia nera dei Protocolli dei Savi di Sion e alle tante altre scempiaggini care al Monsieur Destouches citato in esergo. Per fortuna non è proprio così, almeno non del tutto, anche se nella scelta si rivelano con discreta chiarezza le posizioni tendenzialmente reazionarie e tradizionaliste di Ceronetti, certo più in sintonia con Burke, de Bonald o de Maistre che con Danton, Robespierre o Saint Just. Si parte da Hölderlin e si chiude con tredici Centurie di Nostradamus, e nel mezzo vaghiamo da Foscolo, Alfieri, Parini, a Leopardi, Carducci, Alvaro e Piovene, e da Blake, Cazotte, Stendhal, de Saint-Martin, Fichte, Heine, Montesquieu, de Laclos e De Sade, fino a Baudelaire, Bloy, Zola, Bataille, Massignon, Schmitt e di nuovo Céline. Un bel cocktail culturale, non c’è che dire, e il lettore si sofferma soprattutto sulle frasi più lapidarie, dal Napoleone di “Non ci si può coricare nel letto dei re senza guadagnarci la follia. Io sono diventato pazzo”, al Bataille di “Il 14 luglio fu veramente liberatore, ma alla maniera dissimulata di un sogno”, o al Jourbet di “Ogni giorno muore qualche rivoluzionario. Impedire soltanto che ne nascano…”; ancora più esplicita la citazione dal Tao-te-ching: “Chi vuole plasmare il mondo non ci riuscirà. Il mondo, vaso spirituale, non si lascia plasmare. Chi lo plasma lo distruggerà. Chi se ne impadronisce lo perderà”. Chissà perché questa lettura mi induce a ripescare gli scritti di un altro intellettuale, tramontato, inattuale, che non gode più del riconoscimento universalmente tributato a Ceronetti, e con una visione piuttosto diversa della rivoluzione: Franco Fortini, che Ceronetti ben conobbe e spesso criticò, e di riscoprirli più congeniali e meno stucchevoli.
Leggere invece questa silloge controrivoluzionaria in parallelo all’ultima intervista di Ceronetti rilasciata al Fatto Quotidiano, risulta deprimente e irritante: una visione del mondo antilluminista e antimoderna, vegetariana e neopatriottica, sostanziata dall’abusata convinzione che “sinistra e destra sono vecchi fantasmi arcidefunti” (ma poi, qualche riga sotto, si è un po’ troppo comprensivi con Erich Priebke e si equiparano l’attentato di via Rasella e la rappresaglia delle Fosse Ardeatine…), dal classismo apodittico restaurato nei feticci delle passate élites dominanti (“Ecco, se c’è una differenza tra la classe dirigente del secolo scorso e questa, è che l’altra aveva una base di latino. Questa non ha niente e perciò ha le chiappe scoperte. Se non hai come base il latino, quel che dici in italiano difficilmente contiene verità”… “Alla domanda ‘a cosa serve il latino?’, posso rispondere che serve a distinguere un uomo che ha studiato il latino da uno che non ne sa niente. Il Latino è il vero padre della patria”….), insomma con la solita vulgata di banalità destrorse. È spontaneo chiedersi se davvero Ceronetti fosse il gran pensatore che si vuole o se fosse stata la decrepitezza ad averlo definitivamente rincoglionito. “La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra”, scriveva Furio Jesi: aveva ragione.