Come provvidenzialmente indicato dal risvolto di copertina dell’edizione italiana, hagard, nel gergo della caccia, è un falco catturato dall’uomo che, però, non si lascia mai addomesticare del tutto. Allo stesso modo sembra agire Philip, il protagonista dell’omonimo romanzo di Lukas Bärfuss, acclamato autore svizzero classe 1971, già premio Büchner nel 2019. Come un falco riottoso all’addomesticamento, quello che Philip mette in scena è un tentativo continuo di divincolarsi dalla propria esistenza, ma anche dalla cornice – anche di tipo letterario – in cui quest’ultima è calata.
A spingere il protagonista verso la sua impresa “forsennata” – ancora molto preciso, a questo proposito il risvolto di copertina – sono in primo luogo la sua vita, il lavoro e le relazioni sociali, perfettamente incasellati nelle griglie di una società dai tratti decisamente asfittici. Si tratta, infatti, di una città europea (con ogni probabilità Zurigo) e di un tempo ben determinato: come si deduce da alcune informazioni circostanziali, debitamente ripetute, si è quasi sicuramente nei primi mesi del 2014. In questo contesto, così vicino a noi nello spazio e nel tempo che i suoi confini tendono presto a sfumare nell’indistinzione, un personaggio borghese come Philip può mettere a punto la propria fuga soltanto a partire da una fantasia individuale. Una fantasia dai tratti chiaramente sessuali, tra l’altro, anche se Philip cerca di occultare un po’ questo aspetto, e non soltanto al lettore, ma anche a sé stesso. Hagard, in fondo, è anche un aggettivo della lingua francese con il quale si può definire un soggetto preso da una certa fascinazione e, al tempo stesso, vittima di un certo smarrimento.
In funzione di tutto questo, la fuga di Philip inizia con il pedinamento di una giovane donna: un’attività che Philip vuole mantenere ben al di qua dei limiti dello stalking, preferendo vedervi interrogativi che vanno dal piano della metafisica a quello di un livido esistenzialismo, quasi irredimibile per statuto, ma che non incrociano mai in modo chiaro e netto la dimensione della sua libido. Del resto, il tema dell’incontro fortuito nella metropoli moderna e le correlate ossessioni sono presenti, nella letteratura occidentale, da quando esistono, appunto, le metropoli moderne. Non si può non pensare, ad esempio, al sonetto À une passante di Charles Baudelaire, la cui lettura benjaminiana è stata ripresa, qualche anno fa, da Umberto Fiori in una lettura critica per Le parole e le cose in cui si legge: “la sua convenzionale esteriorità rinvia clamorosamente a un’intimità inaccessibile. Non la rivela: la segnala. Mostra a tutti che qualcosa resta nascosto. Quel qualcosa è l’individuo così come la nostra civiltà lo ha concepito almeno a partire da Petrarca: un secretum, un dentro (“la mia vita ch’è celata altrui”) che oppone la propria silenziosa autenticità all’urlante fuori della dimensione pubblica”. Anche Philip vede sfilare davanti a sé “la bandiera nera dell’Individualità”, ma, a differenza del poeta, non capisce che il secretum riguarda anche lui, in quanto individuo, imponendo, di conseguenza, un qualche distacco critico dalla sua folle rincorsa.
O meglio, tale critica viene esercitata di continuo – Philip è consapevole, ad esempio, di agire in base a un “disperato bisogno di punti di riferimento all’interno di un universo sconosciuto” – e con dovizia di dettagli, risultando orchestrata all’interno di uno stile preciso e tagliente, che si potrebbe per certi versi definire bernhardiano. Tale critica, però, non è in alcun modo risolutiva o trasformativa; è, anzi, un rovello che si aggiunge senza soluzione di continuità alle altre ossessioni del personaggio, accelerandone la (sempre presumibile e sempre presunta) disfatta.
Tutto questo, come si accennava all’inizio, trova corrispondenza nella cornice più ampia nella quale è calata la vicenda di Philip. Cornice che, soprattutto dal punto di vista della costruzione metaletteraria, risulta comunque un po’ sbracata e lacunosa, poiché, soprattutto in apertura, non è sorretta dal medesimo stile che accompagna le fantasie e le peripezie. Una piccola aporia, per un testo nel quale il pedinamento messo in atto da Philip si riflette nel pedinamento di Philip da parte di altri personaggi e, in ultima istanza, del suo narratore, rinviando così all’idea della scrittura stessa come inseguimento di un oggetto mai raggiungibile, forse nemmeno esistente.
È un’idea erotica e al tempo stesso fallimentare, splendidamente rappresentata dal problema scacchistico che i responsabili de L’orma associano a ogni pubblicazione della collana “Kreuzville”: nel caso di Hagard, si tratta di uno “scacco matto obbligato” in 55 mosse diverse, elaborato esattamente cinquant’anni fa da un programmatore tedesco. Il Bianco muove e vince sempre: peccato che il Bianco non sia né Philip né il suo narratore. E che non lo sia nemmeno la scrittura. Bärfuss ci chiama ad essere testimoni di questa caccia angosciosa, ossessiva, interminabile, eppure da subito destinata alla sconfitta e a mutarla di segno, per effetto di un’amarissima trasvalutazione dei valori, in letteratura.