Il suicidio sfida il pudore perché costringe a mettere in discussione ogni certezza alla base della vita collettiva, e scriverne significa fare breccia nell’indicibile perché neanche la letteratura, spazio sconfinato in cui diamo i nomi alle cose, consente di orientarsi nel groviglio di ragioni dietro un gesto tanto definitivo. Per Lukas Bärfuss la scomparsa improvvisa del fratello diventa occasione di indagine sulla nostra società e le sue fratture in Koala, tra autobiografia, romanzo e trattato filosofico.
Del saggio, in effetti, il libro possiede la chiarezza espositiva e la forte coesione della struttura. Per cominciare, Bärfuss offre un ritratto del fratello e del loro rapporto teso con poche efficaci pennellate, fino alla notizia della sua morte. Nella parte centrale diventa protagonista il koala, animale totemico intrecciato al destino del defunto dai tempi degli scout, e ci si sofferma in particolare sulla difficile convivenza con i colonizzatori sbarcati in Australia nel diciottesimo secolo. Nel finale, l’autore tira le fila del discorso sugli elementi in comune tra i fatti storici e le vicende individuali.
Un ordine scardinato magistralmente non tanto attraverso il racconto della perdita, quanto tramite una riflessione serrata sui meccanismi spietati che regolano il nostro stare al mondo, senza mai abbandonare l’equilibrio e la grazia della prosa, il gusto per l’affabulazione in sezioni brevi e circolari, ognuna leggibile quasi fosse a sé stante. Si tratta di un’implosione sottile, parallela a quella realizzata dal fratello: il rigore e la pulizia nel suo atto sono in aperta opposizione al senso di vergogna e sporcizia solitamente associato a esso.
Il silenzio è costante in ogni fase della vita dei personaggi. Modella in primis la relazione tra i due, cresciuti in un ambiente restio al confronto e gravati dal peso di un segreto di famiglia; in seguito, vi si piega l’autore di fronte alla ritrosia di amici e conoscenti a dialogare sulla propria esperienza con la morte. C’è poi quello del suicida, che però “non aveva bisogno di un narratore. Le conversazioni a cui invitava non tolleravano voce né parole, penetravano all’interno di quanti subivano la perdita, prigionieri in un discorso senza inizio né fine”.
L’obiettivo di Bärfuss, infatti, non è individuare le cause del suicidio, bensì studiare il modo in cui la comunità vi si relaziona partendo dal koala, un angolo inedito di osservazione. Ad avvicinare il suo atteggiamento a quello dell’uomo sono in apparenza la mancanza di azione, l’indole solitaria, l’incapacità di agire; a renderli davvero affini, invece, è il disinteresse verso il lavoro e l’ambizione, diventati necessari all’umanità per sopportare l’assenza di scopo sulla Terra. In entrambi i casi, la loro natura è stata deformata dalla percezione generale, intenzionata a privilegiare l’inutilità dell’animale e la pericolosità del suicida, da tenere lontano dal corpo sociale sano: “Affermare di non capire i suicidi era una menzogna. Al contrario li capivamo fin troppo bene. La domanda infatti non era: perché si è ammazzato? La domanda era: perché vivete ancora?”.
Con una scrittura analitica e insieme appassionata, coinvolgente nella sua abilità di spostarsi tra epoche e storie, Bärfuss interroga sé stesso e chi legge sulla traiettoria della nostra esistenza. Certi individui e certe creature non sono inadatti alla sopravvivenza in sé, ma all’ambiente intorno a loro, l’unico ormai possibile.