Luigi Manconi / Cecità: le diverse vie della conoscenza

Luigi Manconi, La scomparsa dei colori, Garzanti, pp. 208, euro 20,00 stampa, euro 12,99 epub

Cambia tutto quando si diventa ciechi. Quando si passa da una pur incerta percezione visiva, fatta di forme e di colori, a una progressiva perdita di tutto questo, fino al definitivo salto nel buio, costituito dalla cecità. È la drammatica esperienza vissuta da Luigi Manconi, già professore di Sociologia dei Fenomeni Politici e parlamentare per tre legislature nonché tra i primi a impegnarsi per i diritti delle persone private della libertà in carcere. Sempre attento a sostenere l’impegno a favore degli emarginati, di chi è in difficoltà o in situazioni di fragilità, Manconi ha fatto della lotta una sua condizione di vita, politica e personale.

Oggi, questa condizione la racconta in un libro che parla di sé e della sua irreparabile esperienza in un libro che senza alcuna retorica, affronta e ci mostra gli aspetti della riduzione alla cecità in un modo che chiama in causa anche i lettori e la società. Libro che non lascia in secondo piano nessuno degli aspetti della vita di un “cieco”. Il libro ci spiega quello che si nota e che non sempre capiamo fino in fondo. Ci parla dell’importanza delle mani per percepire il mondo circostante, orientarsi e procedere; del ruolo delle gambe, in particolare delle tibie che funzionano come sorta di “paraurti” perché sono quelle più esposte ai traumi e agli incidenti a cui è esposto chi “non vede” e che ogni tanto cade. Ogni tanto, perché anche se l’idea pregiudiziale, comune e diffusa, è quella del cieco che continuamente inciampa, in realtà il cieco non inciampa così spesso.

Poi ci sono i corpi degli altri, in particolari i volti dei figli di cui si è potuta seguire la crescita solo fino a una certa età, la moglie e gli amici. C’è l’esperienza quasi “psichedelica” dei residui di vista fatta di colori particolarissimi, di piccoli lampi, e c’è una sorta di continua lotta tra l’orgoglio della propria condizione e la tentazione di arrendersi. Inoltre: portare il bastone? Lasciarsi sempre guidare quando si cammina per strada? Concedersi alle ironie o al paternalismo di chi vorrebbe dimostrarsi affettuoso? Accettare definizioni come “ipovedente” e non “cieco”?

Inoltre vi sono tutte le altre esperienze relazionali e fuori dallo stretto ambito della vita domestica come le difficoltà di vivere lo spazio urbano, fatto anche di servizi al cittadino che invece si presentano come sfida per chi è disabile: dalle toilette (rarissime) ai semafori, per esempio. Il sentirsi completamente inerme tra la folla. Fino a ragionare sulle eterne: sogni? E quando sogni, sogni a colori? Si potrebbe continuare oltre. Con dovizia di particolari e con una certa dose di ironia e autoironia, a volte anche con sensibilità poetica (le pagine sull’immaginazione, tra le altre, sono molto belle) Manconi prende in esame tutte le situazioni che gli sono capitate e che, nel tempo posso coinvolgere chiunque sia afflitto da condizioni di disabilità.

Da questa narrazione ha origine un romanzo al cui interno sono presenti riflessioni di rilievo e che possono – devono – riguardare chiunque. La più importante è la scoperta dell’importanza (e della bellezza) di potersi fidare degli altri, di potersi abbandonare senza temere di perdere autonomia, in una condizione di “reciprocità”. Poi però, con un monito che non può non interrogarci, verso le ultime pagine del libro Manconi afferma: «Il più affettuoso dei sostenitori o dei soccorritori della persona cieca è, in genere, chi ne vuole limitare la libertà e surrogarne l’autonomia, fino a sostituirvisi. Chi con maggiore slancio affettivo vuole sostenere o soccorrere il cieco finisce troppo spesso per mortificare il residuo di libertà che la condizione di disabile tuttora preserva. Quell’ansia di protezione rischia di tradursi in tendenza al controllo. Ovviamente, “per il suo bene”».