Lucio Battisti: l’artista non esiste, esiste la sua arte

Quella di Lucio Battisti (1943-1998) è la parabola di un percorso creativo in forte controtendenza nella musica pop italiana, che illumina le contraddizioni tra l’arte e le modalità della sua fruizione.

Con l’anglicismo e l’americanismo che ci hanno coinvolto in questi ultimi anni andavamo perdendo, proprio noi mediterranei più di tutti, lo spirito creativo, la vitalità che ci caratterizzano da sempre e che non sono morti ma semplicemente addormentati dalla sudditanza all’America dei frigoriferi e dei consumi. (Lucio Battisti, cit. Assante, p. 212-3)

La recente uscita per Mondadori di una biografia intitolata semplicemente Lucio Battisti per mano di Ernesto Assante (Mondadori, pp. 328, euro 20,00 stampa, euro 10,99 epub), già critico musicale per “La Repubblica” e “L’Espresso” nonché autore di trasmissioni TV, è soltanto l’ultimo capitolo di una ormai nutrita bibliografia dedicata a un artista che, lasciando da parte il gusto personale, è probabilmente il più conosciuto nella musica italiana del secondo dopoguerra.

L’attenzione della critica sul fenomeno cantautori, esploso negli anni Settanta in concomitanza con l’affermazione definitiva di Battisti, è per la verità un fenomeno tardivo. Va dato atto alla casa editrice Lato Side di Luigi Granetto di essere stata la prima a dare alle stampe libri sulla musica leggera italiana: dopo i volumi dedicati a Fo, De André, Guccini (scritto da Michele Straniero), Baglioni (autobiografia scritta con Michelangelo Romano), il numero 8 della collana uscito nel 1979 era appunto dedicato a Lucio Battisti, autore: Gianfranco Manfredi.

Uscì appena dopo la pubblicazione del LP Una donna per amico, forse il più venduto dell’intera discografia. Il sodalizio con Mogol sembrava inossidabile; Battisti era caparbiamente detestato oppure adorato acriticamente — con qualche sfumatura, per esempio in chi lo ascoltava ma non poteva ammetterlo, perché i suoi testi non erano “impegnati”. Gianfranco Manfredi, a sua volta cantautore (impegnato, va da sé) e poi scrittore, fece un’analisi coraggiosa, obiettiva e radicale del fenomeno musicale, che in qualche modo tende a separare l’autore di musica dall’interprete di testi “altrui”. Tra i temi più diffusi nelle canzoni della coppia, Manfredi individua infatti la necrofilia e il cannibalismo, quest’ultimo incentrato sulle figure della “mangiatrice d’uomini” e dell’uomo-cuoco, protagonisti di diversi testi rapettiani (Manfredi, p. 13-22).

Da questo scorporo tra parola e musica emergono il valore vocale del Battisti interprete e l’ambiguità di Mogol scrittore (“Battisti ‘qui’ e Mogol ‘là”, scrive Manfredi, p. 32):

“Battisti è senza dubbio un grande cantante. […] col suo cantare smozzicato, può cantare tutto: sdrucciola sulle sdrucciole, tronca quando non deve troncare, a volte allunga le tronche, infila cinque parole in una misura e al ritorno della medesima misura è capace d’infilarne dieci.” (Manfredi, p. 29-30)

A proposito di Mogol, invece, Manfredi oscilla tra due definizioni: “Geniale”, direi in senso ironico, e “finto-tonto”, naturalmente a partire dall’analisi dei testi, con la loro filosofia del senso comune, il machismo de noantri e la visione stereotipata della donna, la quotidianità vista come “fotografie patinate spesso kitsch”.

In principio fu, dunque, il saggio di Gianfranco Manfredi; oggi invece la bibliografia su Battisti è ricca e variegata, tanto che si può addirittura suddividere in sotto-filoni:

  • A partire da quelle meno interessanti, ci sono opere puramente elegiache con belle foto in grande formato e tanta patetica nostalgia per gli anni d’oro del sodalizio con Mogol, mentre gli ultimi dischi vengono considerati un’involuzione, un’eccezione alla regola; appartiene a questo filone, per esempio, il volume in grande formato dell’editore EPI del 1989.
  • Seguono biografie destinate a un pubblico generico di fan ancora storditi dalla svolta post-Mogol, come Emozioni di Lauro e Turrini, che pure contengono a volte interessanti elaborazioni originali; sulla stessa linea è I giardini di Lucio di Alberto Paleari, che già gronda nostalgia dal titolo, chiaramente ispirato a una delle canzoni più felici del periodo Mogol, e dell’intera musica italiana di fine secolo. A questo gruppo appartiene però anche Pensieri e parole di Luciano Ceri, impostato su una dettagliata analisi dell’intera discografia (anche delle canzoni incise da altri interpreti), ricco di notizie, che ci ricorda come esistano anche canzoni scritte da Battisti a più mani insieme a altri e senza Mogol — Alberto Radius, Tony Cicco, Gabriele Lorenzi — o anche come autore sia della musica che del testo, come “Quando ti lascia l’amore” cantata in italiano da Gene Pitney nel 1968.
  • Raccolte di testi molto interessanti per la documentazione contenuta, come Battisti talk di Francesco Mirenzi, che riprende l’intero corpus di interviste rilasciate dall’artista — materiale non abbondantissimo, dal momento che le occasioni di intervistarlo andarono rarefacendosi a mano a mano che “il soggetto” si ritirava in un ostinato silenzio caparbiamente opposto al morboso interesse dei media.
  • Infine, analisi musicologiche di spessore, come Specchi opposti di Ivano Rebustini, dedicato agli anni post-Mogol, o Mogol-Battisti, l’alchimia del verso cantato di Gianfranco Salvatore.

“Il suo contributo più importante? È stato il primo, secondo me, a portare la melodia sillabica nella costruzione di una canzone. Ai suoi tempi questo procedimento non si usava molto: piuttosto si facevano melodie orizzontali di ampio respiro. Ovviamente erano molto belle e molto italiane, ma il canto sillabico non veniva adoperato quasi mai.” (Ennio Morricone, cit. Assante, p. 79-80)

Battisti non è mai stato d’accordo sulla definizione di “cantautore” rivoltagli, e giustamente: era un autore che interpretava canzoni proprie, mentre  i testi erano opera di un professionista, Giulio Rapetti, registrato alla SIAE con lo pseudonimo Mogol. Il fenomeno musicale Battisti-Mogol nasce con l’incontro tra i due, nel 1965; il primo, il musicista, proveniva dalle orchestre da ballo di Roma e Napoli, era un appassionato di rhythm’n’blues, ascoltava musica nera, Otis Redding, Ray Charles, e più tardi Dylan e i Rolling Stones; il secondo, il “paroliere”, già conosciuto nell’ambiente discografico, si rendeva conto che la musica italiana era sull’orlo di una svolta: i giovani stavano per irrompere sul mercato come era avvenuto in Inghilterra. Insieme, dopo i colpi già inferti da Modugno, i due segnarono il tramonto del “bel canto”:

La “canzonetta” era definitivamente morta e sepolta; era solo un oggetto destinato al commercio, però decisamente lontana dalla vita, dall’arte.” (Assante, p. 131)

“Battisti fu infatti sempre consapevole di quanto fosse fondamentale, per lui, il controllo dell’interpretazione delle sue creazioni. In un’intervista del ’69 sintetizzò il suo pensiero in un’immagine suggestiva. “Fra la canzone che incido io e quella che faccio incidere — disse — c’è la stessa differenza che esiste tra un bacio dato e uno spedito per posta o per telefono”. Era convinto, in altri termini, della qualità fisica e icastica del canto, di come una voce porti nel microcosmo di una canzone il corpo e la personalità dell’interprete.” (Salvatore, p. 118)

Ernesto Assante ripercorre la via seguita da Battisti-Mogol, raccontando in che modo le loro canzoni “precorrevano i tempi, incidevano sulla morale e sul costume, insegnavano a vivere” (p. 120): racconta le canzoni scritte per altri, la collaborazione con le band più originali dell’epoca (Equipe 84, Formula 3 e soprattutto PFM), i duri contrasti della coppia con la Ricordi, che portarono alla rottura con le edizioni musicali, l’attraversamento del mare insidioso del beat,  il progressive, fino al grande successo: nel 1971, due LP piazzati al primo e secondo posto nelle classifiche di vendita, la continua presenza in TV, le tournée nei teatri. Scrive Assante che le canzoni del duo sono le prime a infrangere il muro tra il pop e la musica di qualità, tra i cantanti puri e la canzone d’autore, “cosa che, dalla metà degli anni Settanta, accadrà con tanti altri personaggi, sempre più spesso, portando la canzone italiana a un livello straordinario di qualità, quantità e popolarità, ineguagliabile in Europa negli stessi anni” (p. 157). Era la grande stagione dei cantautori.

Quasi subito però il meccanismo s’inceppa. Battisti, estremamente pignolo durante le sessioni di registrazione, si adatta male a suonare dal vivo, perché sul palco non può avere completa padronanza del mezzo espressivo. Inoltre, il presenzialismo televisivo lo infastidisce a causa dell’invadenza nella sua vita intima, dato che vorrebbe parlare solo di musica; peccato che questo contrasti con le regole dello stardom.
“Il suo vero amore era la melodia, creava melodie legate agli stati d’animo, che erano certamente legate alla cultura italiana, al nostro sentimento collettivo, che lui però ha saputo legare all’onda sonora che arrivava dagli Stati Uniti e soprattutto dall’Inghilterra, a quel linguaggio popolare del dolore del Novecento che poi è il soul e il blues.” (Franco Mussida, cit. Assante, p. 185)

Assante attira giustamente l’attenzione su un primo tentativo di emancipazione dalla forma-canzone (senza contare che il LP “Amore e non amore” del ’71 era composto per metà da brani strumentali): l’album Anima latina del ’74 sconcerta persino Mogol, che non condivide la predominanza della musica sulle parole; ritiene di aver scritto il suo testo più bello con la canzone “Macchina del tempo”, mentre in fase di registrazione Battisti tiene il volume della voce così basso che rimane oscurato dalla musica, arrangiata come un progressive. Anche se negli anni successivi questa accelerazione rientrerà temporaneamente, è a partire da questo momento che si concretizza la ricerca battistiana di una via nuova, ricerca che è figlia della grande fucina creativa che animava i giovani musicisti degli anni Settanta, completamente svanita nei vent’anni successivi.

“Per continuare la mia strada ho bisogno di nuove mete artistiche, di nuovi stimoli professionali: devo distruggere l’immagine squallida e consumistica che mi hanno cucito addosso. Non parlerò mai più perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L’artista non esiste. Esiste la sua arte.” (Lucio Battisti, cit. Rebustini, p. 58)

E così inizia un percorso emancipazione dalle regole del jet-set che non ha eguali nella scena artistica italiana, neppure in riferimento a Mina che coltiva un’analoga allergia a divenire artista-oggetto.

“È l’abbandono di una dimensione pubblica, della stardom, in favore di un rapporto diretto, alla pari, tra chi crea e chi ascolta. Dove chi ascolta è protagonista quanto l’artista, e non un semplice fruitore passivo.” (Assante, p. 210)

“L’intento è quello di cambiare la canzone popolare; forse, se ci è concessa l’esagerazione, di farla diventare veramente popolare, in una simbiosi tra pubblico e artisti che, non a caso, altri artisti in altre parti del mondo cercavano di raggiungere.” (Assante, p. 213)

Le tappe di questa progressiva scomparsa dalla scena pubblica sono conosciute: cessazione delle esibizioni dal vivo (1970), ultima apparizione in televisione in Italia (1972) e all’estero (1980), ultima foto di Battisti sulla copertina di un disco (1978), ultima intervista (1979), fine della collaborazione con Mogol (1982), per arrivare al punto estremo: gli ultimi quattro dischi non sono supportati da una campagna pubblicitaria, non contengono la stampa dei testi delle canzoni, e all’ascolto anche il senso del testo svanisce. Da L’apparenza (1988) a Hegel (1994) il significato delle parole si sbriciola in versi che spesso si inseguono senza una sequenza logica, e la struttura è persino senza ritornello: rimane la voce, la voce di Battisti, così familiare, così riconoscibile da trasformarsi in strumento a sua volta.

L’autore dei testi che sostituisce Mogol alla rottura del sodalizio artistico, e dopo il breve interludio di un LP nel quale Battisti “fa da sé”, è il romano Pasquale Panella, poeta e già collaboratore di altri cantanti. In un’intervista a Rolling Stone, Panella dichiara che il suo intento nell’accettare questa collaborazione è quello di “togliere le sue [di Battisti] canzoni dai falò, dai pianobar, dalle gite”. E questo combacia alla perfezione con l’obiettivo di Lucio Battisti, già da prima di Anima Latina, di “destrutturare la canzone, di renderla non cantabile, difficile da memorizzare”:

“A Battisti bastava, ed era già una cosa enorme per i 1988, far ‘esplodere’ la canzone, far vedere a tutti che i confini erano stati abbattuti e superati e non con qualcosa di inascoltabile, bensì con melodie, armonie, canto, pensati in un altro modo.” (Assante, p. 294)

E in effetti, gli ultimi cinque album sono lontani dallo sperimentalismo della musica moderna o post-moderna; ascoltare le canzoni diventa un’esperienza, memorizzarle è difficile: un vero e proprio “cut-up musicale e lessicale, la scelta di sviluppare imprevedibilmente le melodie senza rispettare le sequenze classiche della canzone” (Ceri, p. 142). Ma poi l’ascolto arriva a quei momenti di pura gioia nei quali un nucleo melodico sale alla ribalta, in un matrimonio perfetto tra parole e musica, come una coltellata di nostalgia — perché la voce è sempre quella, la voce di “Pensieri e parole”, “I giardini di marzo”, “Una donna per amico” — soltanto, è portata a un ulteriore livello di conflitto estetico che esclude la mediazione di editori musicali, produttori, critici per stabilire un rapporto a tu-per-tu con chi ascolta — ammesso che quest’ultimo ne abbia la volontà, ovviamente.

BIBLIOGRAFIA DELLE ALTRE OPERE CITATE

in ordine cronologico di pubblicazione

  • Lucio Battisti. Canzoni e spartiti, con un saggio di Gianfranco Manfredi, Lato Side 1978
  • Nadia Arduini (non citata in copertina), Lucio Battisti, EPI Edizioni Periodiche Italiane 1989
  • Tullio Lauro, Leo Turrini, Emozioni. Lucio Battisti vita mito note, Zelig 1995
  • Luciano Ceri, Lucio Battisti Pensieri e parole. Una discografia commentata, Tarab 1996
  • Gianfranco Salvatore, Mogol-Battisti l’alchimia del verso cantato, Castelvecchi 1997
  • Alberto Paleari, I giardini di Lucio. Un cantautore un poeta un uomo La sua vita, Sonzogno 1998
  • Francesco Mirenzi, Battisti Talk. La vita attraverso le sue parole. Interviste, dichiarazioni, pensieri, Castelvecchi 1998
  • Ivano Rebustini, Specchi opposti. Lucio Battisti, gli anni con Panella, Arcana 2007