Chi era Luciano Parinetto? Più che una figura dimenticata occorrerebbe ricordarlo come figura ostracizzata, persona poco gradita nell’ambiente accademico, in cui comunque, operava, per “l’aspetto irriverente e sulfureo, per così dire maledetto della sua linea interpretativa e di scrittura alla Rabelais”. Una ricerca, la sua, che lo collocava “da un lato, nel campo generale degli studi di filosofia della storia, che hanno messo a fuoco il rapporto fra magia e ragione nell’epoca moderna – per citare i nomi più illustri basta ricordare Eugenio Garin, Paolo Rossi, Francis Yates – e, dall’altro, sul versante della storiografia moderna e della filosofia politica per gli aspetti inerenti le culture ‘basse’ e le religiosità, le eresie e la rivoluzione politica”.
Ma anche da chi, come Attilio Mangano da cui abbiamo ripreso questo conciso profilo, ha avuto parole molto lusinghiere, non possiamo non rimarcare una sostanziale presa di distanza verso quell’operazione parinettiana che pur ardimentosa rimane “discutibile proprio perché l’accostamento tra le eresie del passato e il marxismo dentro i luoghi dell’esoterico paga pur sempre il prezzo al sapienzialismo e all’iniziazione, cioè a una modalità gerarchica della conoscenza che mal si concilia con l’idea stessa della trasformazione di tutti e dell’eguaglianza, come obbiettò a suo tempo Giorgio Galli curando l’introduzione ad alcuni dei suoi libri.” Arrivando infine a stigmatizzare nella “critica parinettiana del ‘mondo del quantitativo e della democrazia’, del nesso tra regno della quantità e consumismo, un eco del tradizionalista René Guenon”. Tema, quest’ultimo, che riaffiorerà “ancora una volta, nella stessa cultura dei no global, a conferma di un’onda lunga nella critica stessa della società dei consumi e della complessità delle radici di questa linea.”1
Parinetto rimane figura dell’ambiguità, e se pur oggi la “tesi di una rivoluzione che nella sua corporalità non può non passare per il ‘buco del culo’,” non può più scandalizzare nessuno, l’idea di mettere in discussione la “trasformazione di tutti e dell’uguaglianza” rimane uno scoglio difficile da superare. L’esoterico, l’iniziazione, la magia, il diverso e l’idea stessa di differenze inconciliabili tra loro che al posto di una sintesi potranno solo, citando Jung, “attuarsi in un terzo termine, che non rappresenta un compromesso, ma un novum” spingono il pensiero parinettiano verso un terreno sconosciuto in cui anche l’unica speranza per noi reduci di quegli anni in cui si è tentato di dare l’assalto al cielo: “la rifondazione di un nuovo soggetto che liberando se stesso, liberi tutta l’umanità” veniva ad essere irrimediabilmente lesa.
Ed è forse per questo che in questa pur meritoria ristampa2 si trova una consistente postfazione di Federico Zappino che, in un qualche modo, riconduce Parinetto in quell’alveo di una realtà più rassicurante in cui la parola queer sempre più va perdendo carattere di diversità per nuove omologazioni che il capitale è sempre pronto ad offrire sul tavolo dei molteplici desideri a pagamento. Ma questo è un libro che parla di alchimia, di quella figura, l’alchimista, “ripudiato dal mondo moderno, ma, sotterraneamente, protagonista di una delle sue figure più emblematiche”, il Faust eroe, appunto, dell’evo moderno.
Ma il mondo moderno poteva prendere ben altre strade, non era predestinato a essere così com’è oggi e nulla lo costringerà a essere per forza la continuazione di ciò che è oggi. Il Faust è appunto figura ambivalente, possibile motore di un prometeico dominio violento della natura come, al contrario, di una prometeica capacità di ascolto della natura in cui la liberazione dell’uomo non si può attuare senza la liberazione della natura stessa. Ed è da quest’idea – che la natura vada liberata e che questa liberazione vada compiuta dall’uomo – che questa prospettiva alchemica della vita si pone come vera e propria iniziazione per una “trasformazione radicale della condizione umana.”3 Compagno di strada, indissolubile, in questa avventura è Marx, e soprattutto il Marx giovane dei manoscritti del 1844. Ed è un Marx “in tensione”, cioè paradossalmente concepito da Parinetto alla stessa guisa di come gli alchimisti concepivano la natura. Un Marx da scavare dentro, da tradire? Forse anche, ma da seguire in una prospettiva di un suo possibile compimento che lo traghetti fuori da quella filosofia della storia di hegeliana memoria in cui lo si è voluto da più parti ingabbiare.
Alchimia e utopia, che doveva essere una semplice introduzione al libro Faust e Marx si espande fino a divenire libro autonomo. Anche la scrittura parinettiana è in continua e incessante tensione. Grazie agli alchimisti ripropone al centro del dibattito la questione dell’utopia evidenziandone la necessità di rovesciarne il segno dall’utopistica fantasticheria sul futuro per distrarre dal presente alla reale utopica mutazione del presente. Un lavoro da alchimisti, da chi ibrida saperi mentali e manuali. Un sapere ibridato che non può essere in evoluzione (al contrario di quello scientifico) e che forse, prendendo a prestito quella bella immagine che scaturisce dalla conversazione di Deleuze con Claire Parnet4 cerca di involvere, cioè di “divenire sempre più sobrio, sempre più semplice, divenire sempre più deserto, e, attraverso di ciò, popolato.” E popolato non di differenze, cioè nuove identità comunque omologanti, ma di diversità irriducibili tra loro, capaci per questo di predisporre la vita, nella sua indeterminatezza, a un futuro aperto.
1. Attilio Mangano, Il marxismo esoterico di Luciano Parinetto, in “Il giornale di filosofia”, A. I, n. 3, dic. 2001.
2. Luciano Parinetto, Alchimia e utopia, Mimesis, Milano, 2024. Seconda ristampa dopo quella, sempre di Mimesis, del 2004. La prima edizione del 1990 era edita da Antonio Pellicani, Roma.
3. Mircea Eliade citato da Manuele Bellini nel suo importante saggio su Parinetto Dialettica del diverso, Mimesis, 2018.
4. Giles Deleuze e Claire Parnet, Conversazioni, Ombre Corte, 2023.