Chi ha dimestichezza con gli studi di Luciano Canfora sa bene cosa aspettarsi dai suoi libri: una puntigliosa ricerca della verità condotta con acribia filologica, la curiosità dell’erudito unita alla penetrazione del critico, il rispetto del particolare, la dimestichezza con l’antico e col moderno, la potenza di rilievo che nelle sue pagine assumono gli agenti della storia, le sintesi lucidissime. Caratteristiche che si ritrovano nel suo Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano. Con prosa elegante, di pregnanza e incisività aforistica, sempre venata d’una penetrante ironia che rende vieppiù godibile la lettura, con puntuali rimandi interni al testo che dànno unità e coerenza, Canfora si avvicina alla figura di questo “uomo di genio, con la sua grandezza, le sue debolezze, le sue zone d’ombra, il suo fiuto politico talvolta lungimirante, il suo caratteriale individualismo”, attorno al quale è stato eretto un mito postumo, creato dal “Partito” e a cui “egli stesso non fu estraneo”.
L’autore opera come un agguerrito geologo, scavando in profondità nella stratigrafia della nostra storia, ripercorrendo l’intera vicenda del movimento socialistico italiano, dai fasci siciliani al ventennio fascista, sino agli anni della Guerra fredda. Acutamente attento alle faglie personali, alle “scelte sconcertanti”, a condotte talvolta equivoche, agli esperimenti di “entrismo” che caratterizzarono questo singolare “aristocratico-bolscevico”, lottando contro “ricostruzioni caliginose” e provando a far ordine nella “pervicace confusione” delle ricostruzioni, lo storico barese decostruisce il mito che avvolge la figura di Marchesi, delineando la radiografia d’un partito, d’un concetto esistenziale: il comunismo, così come prese forma e si mutò nel nostro Paese, con i suoi alti dirigenti, gli accesi scontri ideologici che ne caratterizzarono i rapporti, i riverberi che produssero nella storia nazionale.
Dopo un’introduzione che situa le vicende nella temperie della Guerra fredda, il libro si apre con lo smascheramento di una falsificazione storica: nella commemorazione che ne fecero alla Camera dei Deputati Umberto Terracini e Palmiro Togliatti nel febbraio del 1957, Concetto Marchesi, discendente d’un nobile, divenne per il primo “nato di popolo, di famiglia contadina”, “di ambiente piccolo-borghese” per il secondo – come si conveniva a un alto dirigente comunista. Tale svelamento della verità (operazione assai cara al professor Canfora), è il binario lungo il quale si snoda l’intero lavoro: un’opera di ricerca sin quasi feroce della realtà fattuale degli eventi ricostruiti, sepolta dalle incrostazioni del tempo, offuscata dai ricordi dei protagonisti volontariamente o inconsciamente alterati, da meditate contraffazioni, da riscritture e revisionismi, da alterazioni cronologiche presenti nelle fonti disponibili. Un compito invero arduo, che l’autore supera con ammirevole piglio filologico, profonda conoscenza storica e, non da ultimo, con l’esperienza anche umana accumulata in anni di studi e di frequentazioni di personaggi che la storia l’hanno fatta. Come una sorta di Sherlock Holmes della storiografia, Canfora è davvero implacabile nello scovare falsi, notizie errate, leggende agiografiche, valutazioni arbitrarie, travisamenti e anacronismi: un tale paladino della verità, con le sue dettagliatissime e sempre verificate ricostruzioni, si staglia come una cometa in quest’epoca di nefande falsità storiche, di squallidi revisionismi e di turpi fake news.
È dunque l’amore per la verità a muovere questa ricerca nell’intricatissima selva di fonti (studi storici, memorialistica, atti parlamentari, lettere, articoli di giornale e di riviste, informative, testi di relazioni, verbali di facoltà – e molte anche inedite, altre desecretate, disseppellite da archivi polverosi, attinte dal proprio archivio personale), nel tentativo di districare i fili dall’ingarbugliata vicenda esistenziale di Marchesi, della sfera pubblica e della privata.
Acquistano così rilievo le dettagliatissime ricostruzioni storico-filologiche della personalità di Marchesi, delle sue crisi politico-esistenziali, degli orientamenti ideologici e delle sue scelte, condotte anche tramite l’analisi dei costanti ripensamenti a cui Marchesi sottopose i suoi studi, in particolare la Storia della letteratura latina (oggi l’edizione Principato, 1979), opera dalla grande efficacia civile, che guidò molti nei momenti più cupi del fascismo. In tale procedimento l’acume del filologo si sposa con quello dello storico e del critico, com’è evidente nel magistrale capitolo “Fenomenologia del ‘pentito’: Sallustio”, dove, con un lungo excursus di storia romana, si delinea la straordinaria attualità dell’analisi di questa “figura emblematica del pentitismo politico”, l’inquieto Sallustio, tramite il quale Marchesi “entra in profondità nel meccanismo mentale del ‘pentitismo politico’”.
Ma il processo di smitizzazione non si limita a questo. Smontando certa memorialistica dei vertici comunisti che tendono a ridimensionare il ruolo che Marchesi ebbe nel comitato dei partiti antifascisti operanti nei frenetici mesi della Resistenza, qui si dimostra che in quel tempo la sua figura, fuori dal partito, appariva come quella “più rappresentativa del PCI, nel suo duplice ruolo di esponente politico di statura nazionale e di rinomato accademico”.
Interessantissima poi la ricostruzione della temperie postbellica, dell’acceso dibattito sulla democrazia e sulla sopravvivenza in altre forme del fascismo, affrontata in un capitolo intitolato con una citazione di Marchesi: “Il fascismo non è mai morto”, una delle preveggenti valutazioni storico-politiche di quel fine politico, provvisto di grande senso storico, nelle quali riposa la sua contemporaneità.
Nel tirare le fila di questo lungo scavo nelle profondità umane, nelle vicende biografiche e storiche, nell’Epilogo lo studioso delinea quello che gli pare il testamento politico di Marchesi, affiancando due testi quasi coevi, che “bene si integrano e vicendevolmente si sorreggono”: l’intervento di Marchesi all’VIII Congresso del PCI due mesi prima della morte, e il discorso di commemorazione del suo amico e conterraneo Matteo Gaudioso, tenuto alla Camera nel febbraio del 1957.
Da queste pagine emerge dunque il ritratto di un uomo indipendente e anticonformista, mai schiavo del settarismo di partito e che seguiva proprie logiche d’azione (e ben proficue), il cui marxismo originale e antidogmatico era solo una componente di un universo mentale eterogeneo. Un uomo che ha fatto dell’impegno politico una ragione di vita, che ha messo la sua intelligenza, la sua cultura e il suo coraggio al servizio di un ideale progressivo che vedeva nell’humanitas, nei valori della giustizia, dell’uguaglianza e della democrazia il più alto raggiungimento di una civiltà. Un uomo che, pur tra ambiguità e debolezze (che Canfora, col feroce spirito critico dello storico di razza, non manca di notare), ha buttato il cuore e l’intelletto oltre l’ostacolo nella lotta senza quartiere al sopruso, alla violenza becera del potere fascista.
In definitiva, questo libro rappresenta un ulteriore, fondamentale tassello nella ricostruzione sempre in divenire della nostra piagata storia, del nostro ulceroso passato. Esso è anche un impietoso specchio da cui balenano sanguigne le paure, le fragilità, le incostanze dell’animo umano, uno specchio davanti al quale lo sguardo esita e quasi si ritrae nel cogliere una verità difficilmente sopportabile – uno specchio in cui appare sinistramente riflesso il nostro disastrato presente, la “lunga durata” d’un fascismo sempre risorgente, in forme magari diverse ma comunque perniciose. E allora a Luciano Canfora ben si addicono le parole che Marchesi scrisse per Benedetto Croce: egli attende “con singolare acutezza e persistenza e dottrina” alla conoscenza dell’uomo e della sua storia, così chiarendo e rivelando “certe intime verità del nostro essere e del nostro mondo”.
A proposito di Concetto Marchesi, molti materiali interessanti si possono leggere a questo link: “L’appello di Concetto Marchesi agli universitari di Padova del 1943”