Luciano Canfora / Historia magistra vitae / Intervista

 Luciano Canfora, La grande guerra del Peloponneso. 447-394 a.C., Laterza, pp. 296, euro 20,00 stampa, euro 12,99 epub

Nel suo ultimo lavoro, La grande guerra del Peloponneso, Luciano Canfora affronta un classico della storiografia, lo scontro tra le grandi città-stato greche dell’antichità, Sparta e Atene. Il volume si apre con una sintomatica premessa: in sedici righe si sintetizza la parabola dell’Europa, dai secoli di crescita fino a divenire “assoluta potenza mondiale” nel diciannovesimo secolo, con la successiva implosione nella prima metà del Novecento, quando i conflitti intestini sfociarono in due guerre mondiali, “di fatto un’unica guerra quarantennale”, che determinò il suo “suicidio” relegandola “al rango di potenza di seconda fila”, “subalterna di nuovi, più giovani soggetti, aspiranti al dominio”. È ciò che accadde ad Atene e Sparta: “Questo libro racconta una storia per molti versi analoga”.

L’autore conduce il suo studio – coronamento di una vita spesa nella comprensione della civiltà attica – in trenta densissimi capitoli, corredati di una cronologia “sommaria” e un “Indice dei passi discussi”, con il consueto periodare chiaro e sapida ars polemica. Non v’è soltanto la mera cronaca degli eventi, ma una pertinace ricerca, svolta con affilati strumenti filologici, delle dinamiche sociali e politiche che provocarono il conflitto e ne influenzarono il corso. Debito rilievo è dato alla diplomazia durante gli anni di pace, tra i contendenti e l’altra grande potenza, l’impero persiano, ai risvolti delle guerre civili che funestarono Atene. Un primo elemento di originalità risiede nella proposta della cronologia del conflitto: lo stato di belligeranza, pur non sempre armata, si protrasse per oltre un cinquantennio (447-394 a.C.) e non per i ventisette anni circoscritti da una consolidata storiografia (431-404 a.C.).

Canfora si sofferma a lungo sulle cause, evidenziando la complessità, la natura globale, piuttosto che locale, dello scontro: a rendere “grande” quella guerra non fu solo la durata, ma le implicazioni geopolitiche di un’intera porzione di mondo. In quest’ottica, i temi dell’imperialismo e del potere, su cui l’autore si è ripetutamente soffermato nella sua lunga attività di studioso, acquistano primaria rilevanza. “Democrazia” imperiale, Atene era costantemente protesa all’espansione del proprio dominio commerciale nel Mediterraneo, all’ampliamento delle zone d’influenza, e Sparta a tale espansione si opponeva, cercando a sua volta di mantenere la propria egemonia: di una tale collisione tra potenze, la guerra era uno sbocco naturale.

Un elemento cui l’autore dà particolare rilievo, con una lettura stringente delle fonti, a partire dalla maggiore di esse, il racconto di Tucidide, è la retorica politica che caratterizzò il conflitto, nel suo farsi e quando ne venne sistematizzata la narrazione. Più d’uno storico considera la propaganda un fattore marginale, utilizzato per acquisire il supporto popolare in momenti di crisi; Canfora la pone invece al centro della dinamica politica e militare, sostenendo che essa fu strategica per mobilitare l’assemblea ateniese e le élites spartane, giustificare le scelte e le azioni delle città-stato, attrarre preziosi alleati: non semplice supporto alla guerra, ma componente essenziale della sua stessa esistenza. Gli opposti schieramenti guerreggiarono all’insegna di slogan quali “portare la libertà ai Greci” (Sparta), “difendere la nostra democrazia” (Atene), concetti ideali che celavano le motivazioni imperialistiche di entrambe le parti. Modalità che, sottolinea l’autore con approccio comparatistico, si ravvisano negli eventi storici della modernità, in particolare i due conflitti mondiali del secolo passato, e negli odierni conflitti internazionali. Da ciò discende uno dei maggiori compiti dello storico: rintracciare le verità nascoste dietro le versioni ufficiali che ammantano di idealismo pulsioni imperialistiche e scontri di potere. In questo senso lo studio si sofferma sulle figure di Pericle, Alcibiade, Lisandro, evidenziandone i personali interessi, l’uso strumentale dei discorsi per avallare una politica di aggressione. L’analisi si concentra su Atene, simbolo di democrazia, che cercava di esportare il proprio modello politico con modalità imperialistiche, imponendo la propria forma di governo agli alleati, paradosso che pone in luce le contraddizioni insite nel concetto di democrazia, che l’autore ritiene rilevante anche per le politiche moderne, dove gli stati spesso giustificano interventi esterni con consimili motivazioni. Ciò conduce a una riflessione su come la guerra del Peloponneso abbia influenzato la partecipazione democratica ad Atene, poiché le tensioni interne e le lotte di potere tra le diverse fazioni mostrano i limiti della sua forma statuale, tema che risuona nelle attuali discussioni sulla qualità della democrazia moderna e sulla necessità di garantire una reale partecipazione dei cittadini.

Si mette poi a fuoco la figura di Tucidide, “politico che si fece storico”, il cui testo rappresenta uno dei grandi enigmi della storia antica. Si smontano “leggende biografiche create dai moderni”, mettendo in evidenza l’acribia e la “quotidiana metodicità” con cui si pose al racconto di quello che considerava il conflitto “di gran lunga il più rilevante di tutti i precedenti”, e si attesta che il discusso secondo proemio della sua Storia fu opera di “un editore”, presumibilmente Senofonte . Egli non fu “esule che si fa raccontare da un doppio”, ma “testimone oculare” di alcuni avvenimenti, e si servì di “informatori”, come egli stesso li chiama. Pur non obiettivo cronista esiliato, è “il solido imprescindibile fondamento di ogni ricostruzione di quella grande guerra, che occupò e mobilitò l’intelligenza sua”.

La riflessione su Tucidide conduce a uno dei cavalli di battaglia dello studioso di Bari, il rapporto tra intellettuali e potere: non di rado i primi divengono strumenti della propaganda, contribuendo a costruire narrazioni al servizio delle classi al comando. Si sollevano quindi questioni etiche sui modi del racconto del passato, con un’implicita critica all’idea di una storia lineare e progressiva; nella visione dell’autore, gli eventi storici sono il risultato di processi aperti, dinamici e complessi, caratterizzati da continue collisioni di interessi economici e lotte per il potere, dalla retorica politica ma anche da contrapposizioni “ideali”: “i moventi ideologici”, egli conclude, “entrano anch’essi in gioco e divengono, per ciò stesso, fatti reali: operano nella coscienza di masse, politicizzate e non ininfluenti, alla maniera delle minoranze attive dell’assemblea ateniese convinte di guidare la città”.

In definitiva, questo studio sullo scontro epocale che ridimensionò drasticamente due tra le maggiori potenze dell’antichità propone un ripensamento critico delle consolidate interpretazioni sull’argomento da parte di “una tradizione disciplinare compartimentata”, a cominciare dalla sua definizione: non “guerra del Peloponneso” bensì “grande guerra mediterranea”. Sottolineando l’importanza di riconoscere i parallelismi storici per decifrare i problemi dell’oggi, Canfora usa quel tornante storico come una lente attraverso cui esaminare le complessità della democrazia moderna, mettere a nudo le pulsioni imperialiste degli stati, gli intrecci e i legami delle élites delle fazioni in lotta: la diagnosi realistica sulle cause di quello scontro “rappresenta in modo esemplare la duplicità di piani su cui si svolgono le guerre”. Una lezione che invita a prendere coscienza di un mondo che va sempre più assumendo le sinistre sembianze di una polveriera, sul punto di saltare e rendere inutili libri come questo.

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Giuseppe Costigliola Nel suo libro lei sostiene che la Guerra del Peloponneso non fu uno scontro incentrato solo su Sparta e Atene, ma un conflitto globale che coinvolse diverse potenze e regioni. In che modo questa prospettiva cambia la comprensione delle cause e degli sviluppi della guerra? 

Luciano Canfora Direi che entrambi i punti di vista – origine della guerra da far risalire al vittorioso ruolo ateniese nella guerra contro la invasione persiana del 480 a.C., coinvolgimento nella guerra di tutte le potenze che si affacciavano sul Mediterraneo – costituiscono l’approdo già della riflessione storico-politica di Tucidide, il quale, non a caso, mentre “scava” alla ricerca della “causa vera”, risale all’anno 478 a.C. e alla svolta epocale rappresentata dalla costruzione temistoclea delle «grandi mura» di Atene.

G.C. Quali ritiene siano state le conseguenze più significative, a lungo termine, di questo conflitto, per il mondo greco e per la storia dell’Occidente? 

L.C. L’arretramento demografico, l’esaurimento di cruciali risorse materiali, il ritorno, da protagonista decisivo, della Persia nella politica greca, il rafforzamento della grecità occidentale intorno a Siracusa, il definitivo declino della potenza economica ateniese nonostante la nascita (378 a.C.) della “Seconda Lega”. Ecco i risultati principali. 

G.C. Lei sottolinea come la democrazia ateniese si sia progressivamente trasformata durante il conflitto. Quanto ha influito la figura di Pericle, e la sua morte prematura, su questa trasformazione? 

L.C. Il sistema politico ateniese si fondava su di un compromesso, alquanto instabile, tra “signori” e “popolo”, tra una leadership in mano a figure provenienti dalla “élite” e “demo” (minoranza politicamente attiva della popolazione di condizione libera). Con la scomparsa di Pericle, il ruolo della “élite” dominante si indebolì: non sorsero figure di analogo peso e capacità direttiva. 

G.C. Tucidide è la fonte primaria per la nostra comprensione di quel lungo scontro, e lei ne ha evidenziato il coinvolgimento. Quali sono state le maggiori sfide nel valutare l’affidabilità di questa ed altre fonti? 

L.C. L’opinione corrente e consolidata nella tradizione antica (età romana) e moderna fa di Tucidide un esule dalla sua città per ben 20 dei 27 anni di guerra. Eppure tutto il racconto che egli ha composto è scritto dall’interno della politica ateniese e anche dal campo ateniese durante l’assedio di Siracusa, nonché addirittura dall’interno della sede deliberativa dei “Quattrocento oligarchi” durante il governo oligarchico di Atene (411 a.C.). Pertanto risulta indifendibile la ipotesi moderna secondo cui per quei 20 anni il suo racconto è “di seconda mano”. Al contrario, si tratta del racconto di un testimone oculare e di alto rango, il cui racconto prevale su tutte le successive fonti (Aristotele nella “Costituzione degli Ateniesi”, Eforo etc.). 

G.C. Nel suo studio si evidenziano alcune analogie tra le dinamiche della Guerra del Peloponneso e i conflitti contemporanei. Quali sono i limiti – se esistono – di un approccio storico comparativo? Quali lezioni possiamo trarre oggi dalla Guerra del Peloponneso? 

L.C. L’impossibile coesistenza pacifica tra potenze che si contendono lo stesso spazio geopolitico ha, nel conflitto spartano-ateniese, un modello istruttivo: istruttivo in primo luogo per i politici che si son trovati, nel corso del tempo, ad affrontare una situazione analoga. L’insegnamento principale è che dunque le cause “occasionali” (Sarajevo) contano meno delle più remote nel tempo, e ineludibili, ragioni di contrasto e di scontro.