Quando entra nel marchingegno, mai perfettamente automatico e prevedibile, della narrazione romanzesca, la precarietà – intesa come condizione socio-economica e non come un dato più genericamente esistenziale – finisce talvolta per prendere le tinte del noir. A prima vista, potrebbe sembrare un esito distante dall’analisi sociologica spicciola, ma la produzione continua di meccanismi di ansia e frustrazione che è legata alla precarietà economica porta a delineare il paesaggio adatto per i risvolti più inquietanti di un intreccio noir. Quasi sempre, tale intreccio non trova un’evoluzione o uno scioglimento chiaro: a prevalere, in fondo, è una sorta di oggettivazione narrativa – di per sé, senza vie d’uscita – di quella stessa angoscia che permea la vita quotidiana dei protagonisti.
Mi era capitato di rilevare questo nella lettura di Capelli blu di Valerio Nardoni, uscito nel 2012 per e/o Edizioni, ma succede anche nella lettura più recente de Il vuoto, romanzo d’esordio di Luca Vaglio, già autore di due libri di poesia (Milano dalle finestre dei bar, del 2013, e Il mondo nel cerchio di cinque metri, del 2018) per la casa editrice milanese Marco Saya. Come Nardoni, anche Vaglio viene da una prima produzione in ambito poetico, ma questo non sembra avere un’influenza marcata sulla lingua della narrazione, dove ogni accesso lirico è intenzionalmente e completamente prosciugato in direzione di una lingua scattante, nervosa, estremamente adeguata nel seguire la vicenda minima e al tempo stesso ossessiva e percussiva del narratore, il giornalista “neo-licenziato” Mattia Ventura.
Questo influisce sull’osservazione della realtà e sulla capacità d’analisi che competono al giornalista, riducendo fino a pochi, eppure decisivi, sprazzi lo spazio per la lucida denuncia dell’aggregato economico-culturale nel quale si ritrova faticosamente a operare, o non operare. Cresce a dismisura, invece, il vuoto che dà il titolo al libro, un vuoto pneumatico – pun intended, in una narrazione che si sviluppa a partire da una gomma ritrovata inspiegabilmente sgonfia – che arriva a coinvolgere tutto l’ecosistema della città dove vive Mattia Ventura, Milano: “E però anche io, come gli altri, mi trovo nell’universo materiale e culturale di questa città, nella storia strana di questo frammento di Occidente, dove per molti un’abbondanza relativa di cose e di risorse coesiste con l’idea di un futuro nebuloso”.
Attraversata da giornalisti precari, lavoratori migranti, sex workers e artisti di dubbia caratura, la Milano noir di Luca Vaglio presenta alcuni tratti vicini alla sua descrizione tradizionale – forse già stereotipata – ma anche moltissimi aspetti estremamente peculiari, grazie a una scrittura che apre costantemente, ma senz’alcuna traccia di retorica, lo sguardo verso orizzonti più vasti. Al tempo stesso, Vaglio richiude presto gli anelli della struttura narrativa, con un finale che spezza il respiro delle ultime pagine, coerentemente con un noir senza scioglimento, e probabilmente senz’alcuna vera speranza di progressione (come lo sono la carriera stessa del narratore e di tantissimi suoi omologhi).
Un noir che parte dal vuoto e ricade nel vuoto, in fondo, non può finire diversamente.