Il 18 settembre 2024 è morto, all’età di 59 anni, Totò Schillaci: calciatore-simbolo e vero eroe del mondiale italiano del 1990, quando l’Italia si mostrava agli occhi del mondo e sognava, proprio a un passo dal collasso economico e politico-giudiziario – dovuto anche agli appalti per la costruzione di stadi e infrastrutture per quei mondiali – che porterà nella cosiddetta Seconda Repubblica. E come sempre accade da quando i social media sono diventati parte essenziale della sfera pubblica, una morte eccellente ha messo in moto la formidabile macchina della nostalgia: l’amarcord che cola mieloso – viscido e appiccicoso – dagli specchi neri dei nostri dispositivi e al quale tutti e tutte noi collaboriamo con aneddoti e memorie così, genuinamente sognanti, recuperando interi pezzi delle nostre vite.
Peccato che, anche nel caso di Schillaci, la macchina della nostalgia abbia pervicacemente rimosso i cori che in ogni stadio d’Italia accompagnavano il bomber di Italia ’90 (nato e cresciuto in un quartiere popolare di Palermo): che era un “terrone” e “rubava le gomme”. Schillaci è “un “terrone” che ruba e non lavora” e che diventerà presto il simbolo contro cui la Lega Nord costruirà i suoi successi elettorali, arrivati quando l’ormai odiato Schillaci va a giocare in Giappone, come ricorda Luca Pisapia, autore di questo appassionante Fare gol non serve a niente, giornalista de “il manifesto” e “valori”, tra gli animatori del blog “fútbologia”.
In pagine piene di gustosi aneddoti calcistici, puntuali analisi sociali e digressioni filosofiche, Pisapia ci conduce alla scoperta della storia del calcio che da intrattenimento per aristocratici è divenuto in circa 150 anni il cuore pulsante degli investimenti dei fondi finanziari che vagano a velocità incontrollata per il globo attraverso le reti a fibra ottica, cercando debiti da acquisire e rivendere e sogni da alimentare. Perché, come Schillaci e come tutto nella modernità coloniale, il calcio ha viaggiato, anzi nasce e si sviluppa nel viaggio: è l’intrattenimento dei lavoratori industriali e delle classi popolari britanniche quando il capitalismo concede la riduzione dell’orario di lavoro e non si possono lasciare i salariati dell’industrialismo alla mercè dell’alcool – frangente nel quale si devono anche scrivere regole più stringenti per un gioco di contatto che si fa pericoloso –, scende dalle navi britanniche che conquistano mondi e mercati e si gioca nei porti insieme al cricket, è custodito come un sogno nelle valigie di cartone dei migranti meridionali che vanno a riempire le fabbriche del triangolo industriale Genova-Torino-Milano (non a caso per anni capitali del calcio italiano nella sua fase di ascesa) riempiendo le squadre possedute da industriali dell’auto e petrolieri e nei quali le masse dei lavoratori possono finalmente riconoscersi, la domenica, allo stadio.
Il gioco tanto amato evolve ma, ci dice Pisapia, non è solo oggetto delle modificazioni sociali che lo circondando e lo plasmano, è piuttosto esso stesso soggetto di grandi trasformazioni. Davvero singolare il rapporto che il calcio intrattenere sempre più simbioticamente con le TV: esso richiede di essere sempre più visto e guardato ovunque nel mondo e, allo stesso tempo, tattica e movimenti degli uomini in campo sembrano gradualmente adattarsi alla necessità di stare dentro l’inquadratura televisiva. Impossibile rendere conto dell’incredibile fantasmagoria davanti alla quale questo libro ci mette davanti in poco più di centocinquanta pagine – uomini, fatti, politica, cronaca e memoria – e tuttavia occorre ribadire una delle sue idee chiave: il calcio non è (solo) un gioco ma soprattutto una sofisticatissima merce perché, in termini marxiani, contiene quel carattere spettrale e non solo materiale delle merci, e in esso si concentrano tutti gli attori e tutti i conflitti del sistema sociale capitalistico, il capitale, il produttore, il prodotto, il valore.
“La nostalgia è un sentimento reazionario” dice Pisapia perché dovremmo amaramente accettare che il calcio è nato moderno, creando la Modernità e venendone plasmato con tutte le sue terrificanti contraddizioni: non c’è mai stata un’epoca innocente del pallone, insomma. E dunque, che siate calciofili o no, dopo questa appassionante lettura, nel calcio dato a un pallone su un rettangolo verde non potrete più fare a meno di vedere la guerra dei mondi. Certo, senza mai perdere la tenerezza.