Luca Pallanch / “A volte ritornano: gli eroi del crime d’antan risorgono nella narrativa di genere”

Luca Pallanch, Un colpo da pochi milioni, Lorenzo de’ Medici Press, pp. 127, euro 15,00 stampa

In un rimbombo di sbarre, un detenuto esce da un penitenziario per buona condotta, per borsa una sacca da pugile. Vincenzo Sabelli, “il gentleman”, com’era chiamato negli ambienti della mala d’un tempo per il vezzo di vestirsi da gran signore la notte dei colpi, “professionista del crimine tra tanti dilettanti”, ha trascorso vent’anni in gattabuia. Prima del rilascio, Tretti, il “commissario senza macchia” che l’aveva beccato, concede “l’onore delle armi” a colui che aveva realizzato “un colpo da annali del crimine”: due uomini legati da un’ossessione, da un destino che accomuna solo i commilitoni o i soldati di eserciti contrapposti. Ad attenderlo fuori, con il taccuino in mano come l’aveva lasciato, il cronista Gherardi, “ancora curioso di sapere come avesse fatto ad aprire la cassaforte di una banca senza forzarla”, un uomo “che passa le serate ad aspettare Godot”, ovvero “notizie degne di nota” in una sonnolenta e agiata provincia: altra coppia di individui “sopravvissuti persino a se stessi”. Comincia così, come la sceneggiatura d’un film, l’agile noir di Luca Pallanch Un colpo da pochi milioni, edito da Lorenzo de’ Medici Press, “nuova sigla editoriale autonoma, indipendente e rivolta verso il futuro”, come si presenta sul sito.

Il riferimento al cinema non è casuale: l’autore lavora alla Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia, ha seguito per anni programmazioni di sale, curato retrospettive per le maggiori mostre del cinema italiane nonché diversi libri sull’argomento, e il suo romanzo d’esordio è pensato e realizzato con l’approccio visivo di chi scrive un copione, con un protagonista che “più che un ladro si sentiva un attore”, un lessico opportunamente evocativo (“remake”, “fotogrammi”, “film”) anche arricchito da riferimenti cinefili, scoperti e sotterranei, in particolare al decennio degli anni Settanta, che fecondamente pescò nella coeva letteratura crime segnando indelebilmente l’immaginario d’un paese.

La storia si apre in primavera, simbolica nuova stagione della vita: non a caso Sabelli ha la sensazione di “rinascere, senza essere morto”, e, come da tradizione, è un uomo solo: senza famiglia, senza una donna, unici conoscenti il citato Gherardi e gli antichi complici, Michele, Giulio e un terzo, Alfredo, che non compare, usciti indenni dalle slabbrate maglie della giustizia e “ripuliti”, ormai integrati. Lui, romano stabilitosi in una ricca provincia del centro Italia per mettere a segno un colpo accuratamente meditato e preparato, è “la mente criminale” e ha pagato per tutti, poiché non ha tradito. Ora è lì a renderne conto, con il fascino e l’intelligenza che lo contraddistinguono.

Nel mondo “libero” (che tale in effetti non è) trova però una realtà impreveduta: “Qui è cambiato tutto” gli spiega Gherardi. Ma Sabelli è uomo duttile, come chi ha imparato a sopravvivere: “Mi sa che mi devo abituare a questo nuovo millennio”. E nel “nuovo mondo” in cui si trova ad agire compie le prime azioni: deposita i soldi in una banca, maneggia un bancomat, acquista un nuovo telefonino, accetta consigli su un computer, comincia la quotidiana lotta per il cibo, fino a sentirsi “svuotato e perfettamente integrato nel sistema”. Gli pare davvero di venire da un altro pianeta, eppure si era preparato: in carcere aveva letto Pasolini, s’era divertito a scorrere le figurine di vecchi album di calcio “per cogliere le fasi del mutamento antropologico in atto”. Sì, il mondo gli pare “capovolto”, “precario di sentimenti e di tanto altro”. Persino le sale di cinema sono scomparse, sostituite dai Bingo: come a dire che l’anima isterilita ha perduto la capacità di sognare. Ma non si scoraggia, Sabelli, tramuta l’alterità in fonte di forza e non di sconforto: “Si accorse che era l’unico, lì in mezzo, a scrutare il mondo, gli altri camminavano ciechi verso il loro abisso. Si sentì rinfrancato e gli parve di non aver sprecato un pezzo della sua vita, ma solo un frammento”. A ben vedere, è “un privilegiato”, uno che “la battaglia contro il tempo l’aveva già vinta”.

Eppure, come tutti, si porta dentro un’ossessione. Il carcere gli ha “addomesticato il fisico, non la mente”, ha conservato l’indole “illegale”, e ha passato anni a ideare un nuovo colpo, la sua “ancora di salvezza”, lo scopo che gli ha consentito di vivere in cattività. Anche per questo incontra gli antichi complici, per riformare la banda. Non sono tuttavia i soldi ad attrarlo, quanto “le emozioni, il brivido, l’adrenalina, la sensazione della fine sempre presente”, “il sentirsi di nuovo vivo”. Insomma, si lancia una sfida: provare a se stesso di essere ancora quello d’una volta. In fondo è rimasto un ladro che studia le casseforti “come un bambino nel paese dei balocchi”.

Ma con il mondo, anche la criminalità è cambiata, la malavita straniera ha scalzato l’autoctona, adesso è l’epoca dei “crimini invisibili”, dei reati finanziari “che alla gente comune non dicono nulla e non macchiano la tua onorabilità, anzi valgono come un attestato della tua spregiudicatezza”. Sabelli dovrà vedersela con i balcanici e i cinesi che si contendono il territorio: cosa accadrà, con un capovolgimento del gioco delle parti, gli svelamenti e le agnizioni finali, lo lasciamo al lettore.

Al di là della trama avvincente, ad affascinare di questo noir è proprio la riflessione sullo scorrere delle epoche, sulle mutazioni che hanno stravolto usanze, tradizioni, la sostanza stessa dell’essere umano. Con un accorto uso dello stratagemma letterario dello spaesamento, reso con realismo psicologico, un individuo è colto nell’incontro con una realtà irriconoscibile. In questo spaccato l’autore gioca molte delle sue carte, calando l’asso del sapore demodé della prosa, intessuta d’un lessico volto al recupero di parole gergali desuete (“sgobbo”, “cassettaro”, “cassamortaro”, “batteria”), con uno stile piano e incisivo, l’agile struttura in capitoli titolati con retrogusto letterario ad indicare il contenuto, l’ethos di personaggi come Gino, il giardiniere-filosofo che accoglie Sabelli nella sua cooperativa, anch’egli ex detenuto, “un lupo che si era fatto agnellino” e fa dell’ecosostenibilità una ragione di vita. O come l’ex complice Giulio, temerario e forse criminale agente di borsa incredibilmente arricchito che serba un insospettato fondo di fragilità e di altruismo.

Ma a dare spessore alla narrazione non è solo il raffronto tra il passato e il presente; ulteriori motivi sono veicolati per mezzo di contrasti tematici: comunità-individualità, ordine-disordine, giustizia-ingiustizia, etica-cinismo. La trama si dipana su tali coppie oppositive, rendendo un racconto di genere pregno di significati oltre che godevole, sino al finale con un nocciolo duro di moralità, compimento di una figura narrativa che meriterebbe davvero di essere trasferita sullo schermo.