Luca Beatrice / Cosa vedo, se guardo

Luca Beatrice, Le vite. Un racconto provinciale dell’arte italiana, Marsilio, pp. 320, euro 19,00 stampa, euro 9,99 epub

Luca Beatrice ci consegna attraverso e pagine di Le vite non solo un racconto e una carrellata di personaggi ma quasi un lascito sul suo passaggio nell’arte e nel tempo italiano. Il titolo è chiaro richiamo – nel metodo, contrasto e prospettiva – con Le vite. Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori di Giorgio Vasari pubblicato nel 1550 e poi ristampato ampliato già nel 1568, primissimo libro organico di storia dell’arte pervenuto a noi moderni e contenente le notizie biobibliografiche degli artisti.

Se da subito è chiaro che nel volume ci saranno connessioni con sociologia, politica, economia e arte, attraverso nomi e date, si resta piacevolmente sorpresi nel ritrovare il senso proprio della parola “incontro”. Appare chiaro quindi che la scansione in periodi, e i nomi inclusi, sono il frutto del percorso e dell’esperienza di Beatrice. Incontro come termine assoluto dell’andare verso un qualcosa, indipendentemente dal medium usato (che sia il libro d’arte sui banchi di scuola o la mostra nella grande galleria). Se nell’introduzione viene spiegato come la definizione di un controcanone sia quanto mai necessaria per descrivere il paesaggio dell’arte contemporanea, diventa limpida quindi la definizione di “provinciale”: aggettivo già usato in copertina, per dare luce al filo stretto che sta tra pensiero, arte e territorio, così radicato da creare un caleidoscopio di talenti e di modi d’esprimersi.

La scansione temporale delle sezioni (“Prima della rivoluzione”, “Dalla guerriglia al museo”, “Formidabili quegli anni Ottanta”, “La mia generazione e oltre”), e i racconti che si susseguono come in una sorta di diario della memoria, ci accompagna in un viaggio fatto di viaggi. Allora si increspa un sorriso quando incontriamo Beatrice studente e militare, unico uomo del Corso di Enrico Crispolti che scopre in se stesso il seme di ciò che costruirà per tutta la vita, il seme dell’osservazione, di quello studio “matto e disperatissimo” che lo porterà a essere il critico d’arte eclettico e mai banale che conosciamo. Di racconto in racconto, non solo vengono passate nozioni su suggestioni, influenze e botteghe, oltre alle manovre più o meno politiche, più o meno accademiche, più o meno conflittuali; bensì ci viene narrato anche cosa fa un critico, come si forma un critico e anche come deve evolvere un critico.

E proprio nell’ultima sezione Beatrice ci parla della transazione tra i secoli e così anche di come si sia dovuta evolvere la figura del critico in quella del curatore, un essere un po’ più accessibile che però sa far emergere il meglio dagli artisti che segue, che sa valorizzare le unicità, che riesce a vedere il potenziale, oltre i canoni e oltre le tecniche (quella pluralità tutta italiana fatta di outsider). Si trova quindi in questa parte del libro anche Vittorio Sgarbi che Beatrice inquadra esattamente come “l’uomo che ha modificato il ruolo dell’intellettuale rispetto ai media” e al quale si deve l’uscita del critico dal circuito degli addetti ai lavori.

In nessun lavoro, è palese, si può star fermi e fissi nello svolgere la propria mansione, ma nel mondo della cultura in Italia molte cose restano oscure, o mistificate, e Beatrice con la semplicità di chi le cose le conosce profondamente ci racconta dell’evoluzione museale, della nascita delle gallerie private e degli atelier d’artista. Riesce a mettere in luce i punti di altissima qualità di percorsi diversi che si confrontano ma anche a far scorgere in ombra quelle mancanze di attenzione del nostro sistema politico verso tutto ciò che non è profitto immediato.

Ci racconta di come si costruisce un allestimento, di come nasca l’idea di una mostra o di una performance, di come sia importante conoscere la tradizione per attraversarla e dare una restituzione originale delle nuove visioni, delle nuove tecniche, dei nuovi approcci. Non solo degli artisti, ma anche degli utenti, di tutti quelli che entrano in una mostra. In un certo senso questo libro è un lasciarsi trasportare per mano in una immensa galleria dalle vetrate alte dove le opere d’arte non sono tele e sculture, ma l’arte stessa e chi la produce: le loro menti, le loro mani, i loro colori, i loro luoghi. Il loro essere colti dall’occhio del critico, nel momento dell’incontro. Ecco quindi che ci si trova a voler prendere un treno e andare a vedere uno dei tanti luoghi citati, oppure a voler cercare gli artisti, e un artista il cui fare ci ha oltremodo incuriosito.