Louis-Ferdinand Céline / Nominare la guerra

Louis-Ferdinand Céline, Guerra, tr. Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 156, euro 18,00 stampa, euro 12,99 epub

Potrà anche risultare odioso Céline, come uomo e per le sue scelte politiche più che discutibili durante la seconda guerra mondiale, per quel patologico antisemitismo che lo porta a preferire Hitler come male minore, e finire – pur defilato e brontolando, come sempre – nei ranghi dei collaborazionisti; per essere sempre e inguaribilmente un “nihilista esasperato” (la definizione è di Ernst Jünger, che così lo etichetta nei suoi diari parigini dopo averlo incontrato più volte), eppure non è possibile non amarlo follemente come scrittore. Non solo per la petite musique del suo stile inimitabile – fatto di argot, neologismi, sapienti sgrammaticature – che mette in seria difficoltà anche il migliore dei traduttori, ma per il modo geniale con cui gioca con la propria autobiografia, mescolando realtà e finzione, bugia e verità (come scrisse nel Voyage, “La verità è un’agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte. Bisogna scegliere: morire o mentire. Non ho mai potuto uccidermi io.”), per i personaggi che la animano e la percorrono, questa biografia congetturale, come figurine di Bruegel, in perenne equilibrio fra farsa e tragedia, fra caricatura e catastrofe. Personaggi sordidi, deplorevoli – carogne, proletari o borghesi che siano, identiche carogne, che “un proletario è solo un borghese riuscito male” – eppure, quanta pietà emerge tra un insulto e l’altro, quanta ruvida tenerezza, celata dietro al ghigno di disprezzo per la “bestia verticale”. Céline fu un bravo medico, dicono, ed un uomo tutt’altro che cattivo: curava gratis i poveri dei quartieri bassi di Parigi, specialmente le prostitute, afflitte da malattie veneree, che affollavano il suo ambulatorio. Raccoglieva decine di cani e gatti randagi, li adottava e li nutriva: il maledetto Céline è uno dei pochi scrittori che sa farci piangere raccontando della morte di un cane, come fa in Nord *, descrivendo gli ultimi momenti dell’animale ferito, portato giù dalla Danimarca, che “nel finale punta il muso a settentrione guardando dritto verso la sua origine”. E che sa farci sbellicare sulle vicende più turpi e luttuose. Come la guerra, per esempio.

Guerra, questo fulminante frammento/romanzo appena tradotto da Adelphi, appartiene a un gruppo di testi in prima stesura – Guerre, Londres, La Volonté du Roi Krogold, una differente versione di Casse-pipe – fortunosamente recuperati in tempi recenti dopo essere stati trafugati durante il saccheggio dell’appartamento di Céline alla liberazione di Parigi nel 1944 e la cui redazione va a collocarsi presumibilmente nel momento di massima creatività dello scrittore, dopo il grande successo del suo romanzo d’esordio, Voyage au Bout de la Nuit, fra Mort à crédit e Guignol’s Band, alla seconda metà degli anni Trenta. La narrazione potrebbe riempire un tassello vuoto del mosaico inserendosi nella prima parte del Voyage, quando il protagonista, il ventenne Ferdinand Bardamu – qui semplicemente Ferdinand – alter-ego finzionale del vero Louis-Ferdinand Destouches (Céline, il suo pseudonimo, era il nome della nonna materna), racconta le sue disavventure belliche dopo l’arruolamento come volontario nel 1914.

Le duecentocinquanta pagine di Guerre, si concentrano sul ferimento di Ferdinand, unico sopravvissuto della sua compagnia di corazzieri, e il conseguente ricovero in un ospedale vicino alla linea del fronte; sul suo terrore di venire punito con la fucilazione – si lascia intuire che i soldati prima della strage hanno approfittato dell’attacco per ripulire la cassa del loro reggimento ed il comandante, per evitare il disonore, li ha lanciati in una carica suicida – e il sollievo quando invece, inaspettatamente, gli sarà conferita una medaglia al valore per il coraggio dimostrato; sul fortissimo acufene, conseguenza della ferita subita, che gli resterà per tutta la vita (“Ho sempre dormito così nel rumore atroce dal dicembre del ’14. Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa”); sulle esilaranti ed esplicite peripezie pornografiche con la capoinfermiera Signorina L’Espinasse, la “tardona”, un po’ ninfomane e un po’ necrofila, e con Angéle, la prostituta ventiduenne moglie del diciannovenne magnaccia Cascade/Bébert, amico e compagno di degenza di Ferdinand, che si libererà dell’ingombrante marito/protettore fornendo al comando le prove che la ferita al piede per la quale è ricoverato è effetto fraudolento di autolesionismo, conducendolo così davanti al plotone d’esecuzione: nel finale Angéle, Ferdinand, e l’anziano e ricco ufficiale inglese, cliente della ragazza, che ha preso la giovane coppia di falsi coniugi sotto la sua protezione, partiranno alla volta di Londra, lontano se non dalla guerra, almeno dalle immediate retrovie. Le avventure dell’insolito trio proseguono nell’altro testo ritrovato, Londres, che – speriamo quanto prima – Adelphi si appresti a tradurre.

Lo stile è quello smagliante del primo periodo, più vicino al magmatico Voyage che all’elaborata polifonia dei tre puntini di sospensione, inaugurata con Mort à crédit ed estremizzata nella fase finale dell’opera celiniana, con la trilogia del Nord. Molti dei personaggi minori coincidono, talvolta con nome uguale o molto simile, con alcuni di quelli dei romanzi coevi, soprattutto di Casse-pipe e di Guignol’s Band, a cominciare dai genitori di Ferdinand, già vigorosamente strapazzati in Morte a credito, ma qui trattati con inusitata virulenza (“Non ho mai visto né sentito niente di più schifoso di mio padre e mia madre”). Ma, come sempre, dopo la rabbia, il disgusto, la risata sguaiata, è la commozione, ben mascherata sotto l’irrevocabile coltre di cinismo, che ci graffia il cuore nel finale – e sembra di risentire il fischio lancinante del rimorchiatore, nella frase che chiude il Voyage, “…e noi e tutto trascinava, anche la Senna, tutto, e che non se ne parli più.”) –, l’ultima immagine è per il personaggio più fragile, più insignificante, per il cane randagio che nessuno raccoglierà, la camerierina a cui i soldati pizzicano il sedere e che Cascade cerca di avviare alla prostituzione facendole insegnare il mestiere dalla già più che scafata Angéle: “Destinée in effetti non l’ho più rivista. Non ho mai avuto nemmeno sue notizie. I proprietari dell’Hyperbole avranno sicuro fatto fortuna e allora l’hanno messa alla porta. Ci sono esseri così, è strano, sono carichi, arrivano dall’infinito, ti vengono a esporre sotto gli occhi il loro gran fagotto di sentimenti come al mercato. Non stanno attenti, spacchettano la loro mercanzia come viene viene. Non sanno presentare bene le cose. E tu non hai comunque il tempo di rovistare fra le loro carabattole, passi, non ti giri, tu pure hai fretta. A quelli di sicuro gli dispiace. Che fanno allora, rimpacchettano tutto? Buttano via tutto? Non lo so. Che ne è di loro? Non se ne sa niente. Ricominciano daccapo finché gli resta ancora qualche cosa? E dov’è che vanno allora? Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto”.

Nonostante l’incompiutezza redazionale, l’indecifrabilità di alcune parole omesse dal testo, la confusione dei nomi (Cascade/Bébert, Aline/Agathe, Célestine/Clémence), Guerra si va a situare di punto in bianco fra i racconti più efficaci e sintomatici dello scrittore: la sua pubblicazione non è un ripescaggio di pagine minori e trascurabili ma un vero evento letterario. Aspettiamo con impazienza di leggere il resto del tesoro riscattato dall’oblio.

*Per chi abbia la pazienza di leggere, il passo è così bello che non resisto alla tentazione di citarlo integralmente:

Non volevo farle una puntura… nemmeno darle un po’ di morfina… avrebbe avuto paura della siringa… non le avevo mai fatto paura… è rimasta in fin di vita almeno quindici giorni… oh non si lamentava, ma io vedevo… non aveva più forze… dormiva accanto al mio letto… a un certo punto, un mattino, ha voluto uscire di casa… volevo stenderla sulla paglia… non ha voluto… voleva stare da un’ altra parte… nel posto più freddo della casa, sui sassi… si è allungata dolcemente… ha cominciato a rantolare… era la fine… me l’avevano detto, io non ci credevo… ma era vero, si era distesa in direzione del ricordo, da dove era venuta, dal nord, dalla Danimarca, il muso a nord, rivolto a nord… una cagna estremamente fedele, fedele ai boschi dove fuggiva, Korsor, lassù… fedele anche alla vita atroce… i boschi di Meudon per lei non significavano niente… è morta dopo due, tre rantoli… oh, molto discretamente… senza nessun lamento… con una postura davvero molto bella, slanciata, in fuga;… ma su un fianco, stremata, finita… il naso verso le sue foreste in fuga, lassù da dove veniva, dove aveva sofferto… Dio sa quanto! Oh, ne ho viste di agonie… qui, là… dappertutto… ma mai nessuna così bella, discreta… fedele… quello che danneggia l’agonia degli uomini è il tralalà… l’uomo, malgrado tutto, è sempre su un palcoscenico… il più semplice.