Malgrado un giro di affari che l’industria del cinema si può solo sognare, i videogiochi restano per molti – parafrasando il perfido Kissinger – un gigante economico e uno gnomo culturale. Malgrado vari studi che portano oggi a rivalutare i videogame e le realtà virtuali anche in ambito neurologico e terapeutico, una partita a Call of Duty resta socialmente meno accettabile di una nottata di binge watching su Netflix, non parliamo di un romanzo. Ma anche, perché questo paragone insistito con il cinema e mai con la musica, con cui i videogiochi hanno forse storicamente più in comune, a cominciare da tastiere e chip? E, anche qui, perché sappiamo tutto del Britpop e degli Oasis e così poco del “Brit Soft” (definizione dell’autore) videoludico che lo ha preceduto di qualche anno?
Da domande come queste prende le mosse il libro di Lorenzo Fantoni, giornalista, fondatore del sito N3rdcore (https://n3rdcore.it), esperto di giochi e di culture pop. Un testo che mancava e, detto per una volta a senso, davvero necessario, che rivendica già nel titolo – Vivere mille vite – l’antifona che Eco evocava per i libri (“ci fanno vivere tante vite e non una sola”). Si possono vivere mille vite anche giocando, benché il verbo italiano – giocare – restituisca solo in parte la pienezza e la polivalenza semantica del termine inglese, to play. Ma quasi altrettanto importante è il sottotitolo – Storia familiare dei videogiochi – a indicare il modo scelto per raccontare una storia di pixel e di sfide – con gli amici, con la macchina, con sé stessi – che ha più di mezzo secolo di vita e che da almeno quattro decenni si intreccia con il racconto sociale della nostra quotidianità.
La storia è narrata infatti in prima persona, alternando le epopee – mediamente brevi, avventurose e rocambolesche – di Atari, Commodore, Sinclair e Amiga a quella personale di Lorenzo adolescente, incantato dagli Arcade nelle fumose sale giochi di Firenze, e di suo padre, appassionato del Personal Computer – con cui “si gioca, si lavora e si studia” – ma contrario alle consolle in famiglia. Tra lettori di cassette più lenti di un lamantino e giochi giapponesi spesso copiati e spacciati come sostanze proibite, Vivere mille vite mixa ricordi di prima mano da una safe zone adolescenziale, da cui gli adulti erano in teoria esclusi e che invece ti accompagna per tutta la vita, con riflessioni sulla socialità videoludica tra maschietti adolescenti, spesso con problemi evidenti di bullismo e discriminazione di genere, ma lontani dalla vulgata che li vuole sempre e comunque isolati in camera davanti a uno schermo.
Alle origini del primo videogioco, Space War, c’è l’etica hacker, e il manipolo di nerd che compongono il TMRC di Harvard, prima che la storia approdi a Pong e alla prima ondata di giochi Arcade e ai cassoni dai colori sgargianti che potevi trovare nei bar o nei centri commerciali (dalle cui arcate deriva anche il nome) e di lì ai rudimentali congegni da collegare al Tv-color che invasero il mondo, o almeno il soggiorno di una sua significativa avanguardia domestica, a cavallo degli anni ’70 e ’80.
Di lì in poi, il libro che, come ogni gioco interattivo che si rispetti può essere letto tradizionalmente in sequenza o, alternativamente, saltando da un capitolo all’altro in base al percorso che si sceglie, presenta i principali topoi e filoni del game (nessun riferimento a Baricco) dagli anni ’80 a oggi. Ogni capitolo, un’esperienza multisensoriale che si apre e si espande, nel piacere di un gameplay ben riuscito come nella libertà di esplorare e conoscere nuovi mondi e a volte – ma qui il tema è più controverso – nuove narrazioni. Mondi come quello dolce, fungoso e sempre in evoluzione di Super Mario, che ti permette di scegliere tra diverse strategie e persino “etiche” di gioco; o mondi permeati dai riflessi dell’’intelligenza muscolare come la saga agonistica di Street Fighter II, capostipite di un approccio competitivo che dal baretto poi approda al mondo milionario, mai definitivamente decollato, degli Esports professionisti. O mondi del tipo “sandbox” come i Sìms, senza un obiettivo di gioco preciso, come appunto i castelli di sabbia che i bambini costruiscono liberamente sulla spiaggia.
Altri giochi colpiscono e lasciano il segno. Come Doom, il primo sparatutto 3D che si poteva scaricare direttamente da Internet ( in realtà il secondo ma Wolferstein sembrava più trailer per esercitarti a sparacchiare ai nazi-mostri). Negli anni in cui Jason Lanier sventolando un data glove predicava l’avvento delle Realtà Virtuali, Doom ti permetteva per la prima volta di guardare in faccia i demoni a cui stavi sparando da una soggettiva tridimensionale perfettamente fluida.Uno sballo paragonabile solo alla prima “navigazione” su Mosaic, che in quegli anni è il top dei browser (anche perché è l’unico) che fa accedere al World Wide Web (si chiamava così).
Un successo, quello dei giochi per PC – proseguito dopo Doom con i vari Quake, Unreal etc – che nemmeno lo smartphone è riuscito a mandare definitivamente in soffitta ma che non ha impedito la rivincita in grande stile delle console, con le opposte filosofie di Nintendo e di Playstation. Sulla console di Sony, in particolare, si affermano sia mondi spettacolari destinati a insidiare la popolarità domestica della Champion League come PES – il gioco di calcio preferito da almeno tre generazioni – che open worlds beffardi e trasgressivi come Grand Theft Auto dove apparentemente “tutto è permesso” (anche le polemiche rituali a ogni nuova uscita). Alla fine dei ’90 tra le famiglie italiane il Pc è ancora lo strumento dell’élite, la Playstation (e il cellulare) diventa la piattaforma del popolo mentre Lara Croft sta rimpiazzando Pamela Anderson nell’immaginario giovane adulto.
Nel nuovo millennio i videogiochi cambiano nuovamente pelle, e a volte ricalcano il passato, rielaborando il canone con una tecnologia più immersiva e realistica. È il caso dei MMORPG (cioè Massive[ly] Multiplayer Online Role-Playing Game), un genere popolarissimo a partire dal sempre citato World of warcraft, un mondo popolato da milioni di giocatori che oltre a pagare un abbonamento mensile, allearsi e prendersi a mazzate, in pratica qui vivono una parte non insignificante della loro esistenza. Oltre a conoscersi, infatti, a volte si sposano nella realtà, perché il tempo di gioco qui può davvero concorrere con quello di una vita intera, rubando ore al sonno o al partner. O, nei casi peggiori, assomigliare al tempo di lavoro da cui volevi fuggire.
Altre volte cambiano semplicemente perché il mondo è cambiato, come spiega Lorenzo, ora millennial quarantenne alle prese con giovani e giovanissimi della generazione Z (e presto Alpha, nata dopo il 2012), cioè giocatori con pochi soldi ma tantissimo tempo da spendere. E partorisce qualcosa di assolutamente inatteso e innovativo come Minecraft, creato Markus Persson, che raggiunge 140 milioni di utenti attivi ogni mese nel mondo, attraverso tutte le piattaforme. Minecraft, oggi uno dei brand più popolari di Microsoft, è un videogioco “sandbox” che non ha bisogno di manuale di istruzioni: per cominciare basta piazzare o distruggere blocchi con cui costruire oggetti per interagire e procedere nel gioco, scegliendo anche la modalità che si preferisce (relax, con mostri, senza mostri etc).
L’altro gioco del decennio, Fortnite, 350 milioni di utenti online nel mondo, più che un videogioco è un nuovo canale multimediale che oggi fa concorrenza a Netflix e sfida Apple in tribunale. L’estrema semplicità del gameplay (sei paracadutato su un’isola e devi sopravvivere), unita all’illimitata varietà di sottotrame che si possono interpretare dal momento in cui metti piedi sull’isola, ne hanno garantito il successo e lo hanno anche reso uno dei format globalizzati più popolari di tutti i tempi. Rinnovato quotidianamente da centinaia di programmatori è animato da un flusso giornaliero di micro-eventi (concerti, proiezioni di film, etc), scaricati sui server direttamente dal mondo “reale”, che entrano immediatamente a far parte del gioco, assicurando uno scambio e una presa crescenti sull’immaginario.