Daniele Giglioli, All’ordine del giorno è il terrore. I cattivi pensieri della democrazia, Il Saggiatore, pp. 218, euro 23 stampa, euro 5,49 e-book
Si è scelto un compito non poco ambizioso, Daniele Giglioli, con questo libro, apparso nel 2007 per Bompiani e lodevolmente ripubblicato dal Saggiatore. «Lodevolmente» perché conserva intatte l’originalità e l’attualità delle sue analisi; e «ambizioso» in quanto, indagando storicamente l’immaginario del terrore, cerca di destare una reazione al senso di sgomento procurato dai cruenti attentati che punteggiano il nostro tempo. Postulando un’alleanza tra pensiero critico e immaginazione, considerata quest’ultima come uno strumento euristico indispensabile «per criticare il presente, qualunque presente», Giglioli individua i «cattivi pensieri» suscitati dallo spettro del terrorismo che serpeggiano «sinistri, segreti e velenosi» nel discorso pubblico delle democrazie occidentali, le strumentalità e gli usi distorti che il potere fa del fenomeno terroristico. Più sottilmente, ravvisa quel sentimento inquietante, sempre censurato, di eccitazione e fascinazione che si avverte dopo ogni attentato. È un discorso parecchio delicato, portato avanti con coraggio e piglio da intellettuale di razza (merce assai rara oggigiorno), che si propone di scavare in profondità, scardinare le categorie dell’ovvio per rispondere a domande cruciali: di quale male il terrorismo è sintomo, quale impotenza esso maschera e rivela?
Più che sulla realtà effettuale, l’analisi si indirizza sul suo riflesso in immagine. La categoria del terrore viene esplorata a partire dall’evento fondante la modernità, la Rivoluzione francese, in un affascinante gioco di specchi tra fatti storici e strutture profonde dell’immaginario, tramite un colto e pervasivo ricorso al pensiero filosofico e politico moderno della cultura occidentale, alla psicologia di massa. E per rispondere alle domande poste, per rintracciare una struttura del reale, Giglioli interroga la letteratura, che dell’immaginario è a un tempo manifestazione, critica, verifica.
Con gli acuminati strumenti della comparatistica prende in esame la figura del terrorista in un’ampia schiera di scrittori anche molto lontani tra loro nel tempo, nell’etica e nella lingua (tra gli altri, Hugo, Dostoevskij, Turgenev, Verne, Conrad, Jack London, Henry James, Gide, De Roberto, Svevo, Moravia, Pasternak, Philip Roth, DeLillo, Grossman, Vargas Llosa, Rushdie, Yasmina Khadra, Ballard, Franzen, Bret Easton Ellis, Houellebecq, James Ellroy, Updike…), mostrando come il mondo letterario abbia in genere detronizzato tale figura, rappresentandola non come eroe tragico, o una sorta di superuomo (raffigurazione che esiste solo nella paraletteratura e nella propaganda), bensì come un individuo goffo, inadatto, fragile, non di rado ridicolo. Riconducendolo alla sua misera e grottesca sostanza di impotente burattino, la letteratura ci aiuta quindi a vedere il terrorista per quello che è: uno di noi. Colui cioè che ci rappresenta in quanto mette in scena la delusione delle nostre speranze, la rabbia per la nostra impotenza davanti ad un sistema di potere mostruoso e incomprensibile, in una realtà ormai del tutto saturata dall’immaginario – e poco importa se poi sia un utile idiota al servizio del contrario di ciò che rivendica.
Questo discorso si lega al legame esistente tra democrazia e terrorismo, storicamente e logicamente parto gemellare della modernità, per quanto paradossale ciò possa apparire. In quest’ottica il terrorismo non è il contrario della democrazia bensì il suo rovescio: «È la sua disperazione, il suo lato oscuro, lo spettro sempre incombente del suo fallimento». Fenomeno quindi tutto moderno, che nel postmoderno, con la mentalità informata alla società dello spettacolo, trova la sua apoteosi – altro che califfato o ritorno ai tempi di Maometto! Tutto ciò porta ad un’inquietante conclusione: le democrazie occidentali non sono messe radicalmente in questione da un nemico esterno, come comunemente si crede, ma «da un difetto di struttura, una tara d’origine, un male ereditario».
Questo libro è insomma un invito al riconoscimento di sé, delle nostre debolezze, delle «secche in cui lo spirito pubblico rischia d’incagliarsi». Chi voglia raccogliere questo invito, o semplicemente addentrarsi nell’affascinante universo dell’immaginario del terrore, con le sue fatali ricadute sul reale, se lo procuri senza indugio. Ma con un’avvertenza: che metta in discussione quel che crede di sapere, e si lasci guidare senza timore nelle tante zone d’ombra che costellano questo nostro triste tempo.