I calcoli necessari letti sugli strumenti, gli spostamenti e le pressioni dell’aria, sono le manovre aviatorie di Daniele Del Giudice, la fascinazione del volo da Venezia al centro dell’Europa, dove la città e il suo lago stanno sopra l’enorme anello sotterraneo dell’acceleratore nucleare. Altri strumenti, nei tunnel, rilevano le tracce di materia infinitesimale, spinta dove la natura della massa diventa virtuale, o pura immaginazione. Poi si capisce che a Ginevra un vecchio scrittore e un giovane fisico sono le due identità introdotte da Del Giudice nel suo Atlante occidentale. C’è un sentimento prodotto dalla scrittura, anno 1985, nel secondo libro dello scrittore, qualcosa che si posa sulla geografia secondo le accelerazioni della materia e del linguaggio, da osservare con calma, la stessa calma che occorre durante il volo e durante la taratura degli strumenti.
Era già avvenuto nello Stadio di Wimbledon, il primo romanzo pubblicato da Einaudi nel 1983 e presentato da Italo Calvino due anni prima di lasciarci. “Insolito” lo definiva. Notazione distintiva e generosa, fisicamente sentita dall’autore di Palomar, ultima rappresentazione oggettiva, estremo sguardo su un mondo inteso come universo del linguaggio. Una mappa, o carta geografica, tracciata seguendo punti di vista e punti cardinali. Nell’opera prima di Daniele Del Giudice un giovane giunge a Trieste, in treno, non si sa da dove, con il preciso intento di scovare le tracce di un personaggio interamente originale nella vita letteraria italiana. Bobi Bazlen. L’amico di poeti e scrittori, colui che sembrava avesse letto tutto e che, al di là di appunti e lettere, non scrisse mai un rigo. Colui che costruì gran parte del catalogo Einaudi e contribuì a fondare l’Adelphi.
Il giovane sa molte cose di Trieste, ha un’idea di chi deve cercare, ma probabilmente è un’idea tutta letteraria, ancora mancano i personal computer e dunque la realtà va controllata e osservata seguendo le mappe disponibili, senza tralasciare quelle mentali. L’aiuto viene dagli schermi radar, verdi e fluorescenti, che ben s’addicono al volatore, colui che esplora dall’alto pur rimanendo ancorato alla sua ombra terrestre. Ma Bazlen lo si deve ricercare nei caffè e nelle librerie antiquarie, gli unici luoghi dove, vincendo resistenze e laconicità, si possa combinare qualcosa. Trieste ha molti passati, ma un solo presente dove il giovane può inserirsi, sperando che la vocazione all’indagine lo possa avvicinare ai personaggi, femminili e maschili, che molti anni addietro costruirono una leggenda letteraria. Percorre vie e piazze con lo stato malinconico suscitato da lontananze arcane, qualcosa che si è perduto e che si perderà sempre di più. I libri richiesti nelle librerie non ci sono, o forse i librai mentono perché non vogliono scardinare una realtà immutabile e protettiva. E poi chi è questo straniero dalle strane richieste? Da dove viene, e soprattutto cosa pretende di scoprire?
Fra ingressi e uscite per locali compresi nella loro fissità, utilizzando le poche parole strappate agli abitanti meno ostili, il giovane riesce a raggiungere l’abitazione di una donna. È Gerti Frankl Tolazzi, la musa montaliana del Carnevale di Gerti, una delle più famose e belle poesie de Le occasioni. L’anello di congiunzione fra i triestini (ma lei era di Graz), il poeta genovese e la misteriosa Dora Markus le cui gambe sono ritratte in una foto che Bazlen inviò a Montale con queste parole: “Loro ospite, un’amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia. Si chiama Dora Markus”. Gerti, autrice dello scatto, le definisce, con una piccola dose di sarcasmo, “Gambe per la poesia”. La donna racconta avvolta in un alone di leggenda, porge reliquie di ritratti e reminiscenze, richiamando la civetteria d’un tempo: riaffiora un fascinoso “genovese”, amato a suo dire più del marito, e una foto dove si espone in un quasi spogliarello. A ogni pagina si manifestano i personaggi, alcuni morti e altri ancora vivi, ruotanti intorno all’uomo che non scriveva, pur avendo una vivida coscienza letteraria. Sua massima aspirazione era “far vivere” a ogni costo tutti gli amici.
Daniele Del Giudice conduce il suo primo romanzo, fra visioni improvvise e rilasci, come se temesse di definire gli avvenimenti passati o infastidire persone dalla vita poco esibita fin dalla giovinezza. Un gentile imbarazzo sembra avvolgere il protagonista a ogni incontro, dopo aver a lungo girovagato per la città e ascoltato ricordi disincantati. Oggettivare i sentimenti, incrociarli alla “storia geografica” di Trieste nel primo Novecento, tra presenze e sparizioni, farli sposare ai dettagli, è quanto avviene nello Stadio di Wimbledon. La discrezione, precisa forma di un carattere, si sposa allo sguardo che attesta la presenza di personaggi cruciali, dapprima rilevati dall’alto e poi incontrati in itinerari orizzontali. Occorre riconoscere alla prosa Trieste e Bazlen, contenuta nella raccolta di saggi In questa luce, un decisivo valore sulla questione dello scrivere e non-scrivere e sul delicato crinale tra scrittura e vita.
Negli stessi anni c’è uno scrittore che sperimenta, in poesia, uguale qualità di ricerca: Valerio Magrelli, con Ora serrata retinae e Nature e venature. Segnali, impulsi, rilevamenti satellitari, servono al poeta a rappresentare “l’ammirevole vita delle cose”, quando il ronzio degli oggetti viene superato dalla voce di persone smarrite ma desiderose di farsi timidamente recuperare. Magrelli e Del Giudice, nelle rispettive ricerche, formulano i rapporti intensi fra tempo, piattaforme geografiche e passione conoscitiva. I suoni che li accompagnano giungono da Plateaux of Mirror di Brian Eno e Harold Budd, opera musicale del 1980. L’ambiente convocato da questi scrittori aspetta d’essere “visto” tramite gli strumenti che portano con sé, la prosa e la poesia, le macchine da scrivere e i quadranti, le immagini fotografiche, i clic e tutto il compendio di un’epoca ancora analogica e del tutto umana. Bazlen, Svevo, Montale, Saba, Gerti, Dora appartengono a quegli anni, ne sono emblema e coscienza letteraria. Daniele Del Giudice questo lo sa, il suo esordio si fonda su una mappa precisa, rappresentata magnificamente dalla Carta di Mercatore, proiezione geometrica della terra, usata in aeronautica ed evidenziata da Calvino come immagine-chiave del romanzo.
Il giovane protagonista poi si sposta in aereo a Londra, a Wimbledon, dove ritrova Ljuba Blumenthal, altra musa montaliana (nella poesia A Liuba che parte). La descrizione tecnica del volo, precisa e informata, rivela ancora una volta la competenza aviatoria, con particolari che sorprendono e affascinano: “radiali”, “Vor”, “rotta meridiana”, “zero reading”, un sapere aereonautico ampliato in Atlante occidentale e ulteriormente nel successivo Staccando l’ombra da terra, raccolta di scritti dove aeroplano e navigazione aerea diventano protagonisti, modelli tecnici di un sentimento. Altre memorie si aggiungono alla conversazione con la donna: Pound e figlia nel castello di Brunnenburg, loro dimora, con certe storie di galline che suscitano ilarità (“uova originali del castello Pound!”). I racconti bellissimi di Ray Bradbury, singolarmente amati da Ljuba, primo fra tutti quello in cui Pablo Picasso on the beach traccia sulla sabbia disegni che saranno presto cancellati dalla risacca. Il mosaico delle relazioni triestine sembra completo, Bazlen aveva capito come l’identificazione estrema con le persone gli impedisse di scrivere. È stata la sua forza, il suo capolavoro, suggerisce la donna.
Passeggiando a Wimbledon Park, quando al di qua dei grattacieli appare la visione dello stadio del tennis, il giovane soltanto a quel punto si rende conto di dov’è. Il campo fatto d’erba, l’edificio basso, gli alberi, raccolgono tutta la sua attenzione verso quel paesaggio. “Scrivere non è importante, però non si può fare altro” è un tipo di frase che gli viene, probabilmente appartenuta allo stesso Bazlen. Repentina è la certezza che si possa solo vedere e sentire, riconoscendosi in questa esistenza fatta di lasciti e di riprese, spesso malinconiche ma sempre coincidenti con persone che aderiscono alle cose con i loro nomi. Forse l’opera non conta più della vita, ma ci si avvicina, e Daniele Del giudice l’ha compreso fin dal suo primo libro, continuando a comunicarcelo in ogni successiva opera. Sono passati 35 anni, vale sempre più quel che scrive Tiziano Scarpa nell’introduzione (La profezia delle parole) ai Racconti: “… il massimo della sofisticatezza [tecnologica] deve rimettere in primo piano uno dei più arcaici attrezzi inventati dall’uomo, la scrittura, mentre intorno infuria la burrasca delle immagini”.
Atlante 2019
Negli ultimi giorni di febbraio Einaudi ripubblica, nella collana “Letture”, Atlante occidentale, corredato di una rilevante introduzione del fisico Guido Tonelli. Il volume è altresì prezioso poiché contiene l’inedito Taccuino di Ginevra, 59 fogli dattiloscritti redatti da Daniele Del Giudice durante la sua visita al CERN di Ginevra avvenuta nel maggio 1984. Sei giorni in cui si addentra nei misteri tecnologici dell’anello sotterraneo, lungo diversi chilometri, sede di esperimenti d’avanguardia sulle particelle nucleari effettuati da una folla di scienziati e tecnici. Si tratta del diario di bordo, testimonianza precisa e documentata, che gli servirà per la stesura del secondo romanzo, dove il fisico delle particelle Pietro Brahe e lo scrittore Ira Epstein avviano un’amicizia tessuta sulle rispettive esperienze scientifiche e letterarie. Nel Taccuino vi si trovano le prime tracce narrative che saranno sviluppate successivamente in Atlante occidentale.
Daniele Del Giudice è accompagnato da un fisico (al CERN tutti lo chiamano Criso, Giancriso nelle annotazioni diaristiche) che, con eleganza e simpatia, fa vedere allo scrittore la vita svolta là sotto dagli uomini alle prese con apparati, esperimenti, radiazioni, riunioni e rapporti interpersonali: tutto materiale poi convogliato nelle pagine più belle e precise del romanzo.
Tonelli spiega nel suo scritto il motivo per cui quel libro lo avesse affascinato fin da subito, quando uscì nel 1985. La vita dello scienziato Pietro Brahe a Ginevra è praticamente sovrapponibile alla sua e a quella dei compagni di lavoro, perché Tonelli era in quel luogo proprio nello stesso periodo, stava lavorando a un esperimento in preparazione al Lep, il nuovo acceleratore allora in allestimento. Le coincidenze, individuate durante la remota lettura, finalmente si svelano mentre sfoglia le pagine del Taccuino. La sorpresa è raccontata con grande e sorridente adesione, vi si coglie lo sguardo dei protagonisti narrati, esploratori entrambi, uno verso l’intimità della materia e l’altro verso quella dell’animo umano. Per lo scienziato del CERN valgono più le analogie fra i due mondi che la loro distanza apparente.
L’illuminismo del romanzo prende corpo nella scrittura razionale di Daniele Del Giudice, quanto di più non si potrebbe nell’indagine su un viaggio fra le interazioni nucleari e i sentimenti umani. Fisica e cultura s’intrecciano dentro a quell’Atlante descritto come la mappa più vera del tempo in un’epoca presumibilmente ancora intatta. Tonelli conosce tutto questo, sa bene perché a Calvino piaceva così tanto il giovane scrittore. Calvino aveva pubblicato in quel periodo Palomar, la sua estrema ricerca del sentire. E la “visività” di Daniele Del Giudice accoglie, proprio nel suo secondo romanzo, l’intera esperienza del mondo. Leggere, in contemporanea, la visione della realtà appartenente a Del Giudice, ai due protagonisti, a Tonelli, a Enzo Rammairone curatore del Taccuino (la sua nota diventa essenziale), ci riporta a un tempo di sano contratto fra letteratura e scienza, le cui strade possedevano un lessico che esprime avventura senza pregiudizio. Ora, all’alba di un complicato 2019, ecco che idealmente i personaggi di Atlante occidentale, Epstein e Brahe, si riuniscono in questo volume esemplare e necessario: i loro nomi oggi sono Del Giudice e Tonelli.
Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, Einaudi, Prima edizione 1983, ultima edizione 2013, euro 10,50 stampa, euro 6,99 epub
Bibliografia
Lo stadio di Wimbledon (1983)
Atlante occidentale (1985, 2019)
Nel museo di Reims (1988)
Staccando l’ombra da terra (1994)
Mania (1997)
I-Tigi. Canto per Ustica (con Marco Paolini, 2001, 2009)
Orizzonte mobile (2009)
In questa luce (2013)
I racconti (2016)