Livio Santoro / Sconfinamento 2022

Livio Santoro, Commedie del vespero e della notte, Edicola Ediciones, pp. 96, euro 12,00 stampa

Il nuovo libro di Livio Santoro dà esattamente quello che promette in copertina, deviando in modo costante da una pedissequa soddisfazione delle aspettative di lettura. Segue, cioè, i dettami di un’apprezzabilissima operazione editoriale: nel formato e nell’estetica dell’immagine – opera dell’artista cileno Tite Calvo – si torna sui passi delle Piccole apocalissi già pubblicate da Santoro nel 2020 sempre per Edicola Ediciones, e al tempo stesso si apre alle grandi possibilità digressive, nonché trasgressive, della letteratura.

Commedie, allora: come nel breve testo che dà il titolo all’intero libro, di pagina in pagina, di frammento in frammento, chi legge il libro di Santoro va scoprendo che è “tutto parte di una commedia più grande”, all’interno di una serie di scatole cinesi e di travestimenti per i quali “Yuri Masharawi, e noi di seguito, e l’assito, e la bonaccia e gli assioli, i grilli e il fumo delle pipe di chi assisteva alle rappresentazioni, le lampade ad olio e le sedute fatte di scarti, recitavamo giorno per giorno tra uno spettacolo e l’altro, nell’attesa febbrile del successivo. Yuri era molteplice perché noi lo eravamo, Yuri calcava il palco perché noi tutti ne calcavamo uno più grande”.

Alla fine di questo breve testo, si vedrà poi “il pubblico alzarsi entusiasta ed applaudire, e gridare a gran voce il mio nome, gridare Yuri, Yuri Masharawi”: nome e cognome che, al di là del recente gusto weird per le identificazioni improbabili dei personaggi, sta a significare, con funzione quasi di flatus vocis, le possibilità stesse della parola letteraria di mettere in piedi una commedia che è sempre, in realtà, parte di una commedia più grande.

Vespero, poi. Come si sarà osservato nelle precedenti citazioni, e com’è, in generale, frequente in tutto il libro, Santoro propende spesso per l’aulicismo: la direzione non è tanto quella del preziosismo erudito, quanto quella di un’estetica espressionista e, più oltre, di una stratificazione discorsiva che possa rispecchiare, anche a livello linguistico, il processo di condensazione narrativa e speculativa all’opera in un formato micro-testuale della lunghezza, in genere, di poche righe, al massimo di poche pagine.

Al vespero fa da contraltare più comune e concreto la notte, la cui presenza, nel titolo, costruisce un binomio che è metonimico di un doppio registro più generale, già individuato da Gianni Montieri nella recensione pubblicata sul sito dell’Huffington Post il 3 marzo 2022: “In Commedie del vespero e della notte […] si agitano e si sostengono due linguaggi, si richiamano due modi di fare letteratura, che dalle distanze geografiche e di sintassi e di immaginari, in questi racconti brevi si toccano, si confondono, si mescolano, generando un effetto abbastanza sorprendente”. L’esempio apportato da Montieri – “C’era una volta, e su quella volta erano incastonate le stelle”, incipit di C’era una volta – indica anche un embrionale gioco polisemico che certamente allude anche a quello che si legge in quarta di copertina, ossia a una “prosa densa e musicale che sfiora la poesia”. Tuttavia, lo sfioramento non sempre si avvera, rivelando tentativi talvolta velleitari e, più spesso, dissonanti con quello che è, invece, il maggior pregio del florilegio testuale di Santoro: unire il vespero alla notte, appunto, e cioè coniugare una prosa visionaria tanto nelle forme quanto nei contenuti con una capacità gnomica e un disegno intellettuale sempre molto precisi.

In questo senso non è per caso che, nel risvolto di copertina, Loris Tassi evochi un’altra doppiezza, legata stavolta alle tradizioni letterarie novecentesche cui rimandano le Commedie di Santoro: da un lato, la tradizione del fantastico argentino (Macedonio Fernández, Borges, Cortázar), coltivata dall’autore nella sua attività di redattore della collana “Gli eccentrici” di Arcoiris; dall’altro, il furore linguistico di autori italiani come Gadda, Landolfi, Manganelli. Tassi non cita, ma di certo allude anche a quel Guido Morselli esplicitamente convocato dall’epigrafe del libro scelta da Santoro – da Divertimento 1889 (1975): “non c’è vita, per quanto infausta e sfortunata, dove non entri la commedia”. Santoro non sembra entrare immediatamente in sintonia con il romanzo di Morselli, dove l’evasione di Umberto I dai doveri regali cela a stento l’angoscia esistenziale tipicamente morselliana, ma indirettamente sì, è certamente il filone: anche le sue Commedie sono una digressione, un di-vertimento – A.D. 2022 – costante dalle aspettative di lettura, nutrito da continue aperture verso altri mondi, condensate nello spazio di poche righe. Un divertimento quasi consolatorio, in confronto a quello di Morselli, ma che nel “quasi” trova sempre discreto margine per l’avanzata, inarrestabile, delle proprie tenebre.