Al terzo libro di Livio Santoro per Edicola Ediciones (dopo Piccole apocalissi del 2020 e Commedie del vespero e della notte del 2022), ancora una volta impreziosito dalle mirabili copertine di Tite Calvo, ci si può legittimamente chiedere – come del resto avviene nella bandella, estremamente sintetica ma in sé perfettamente compiuta – se, con Favole nuove, ci si trovi davanti alla chiusura di un ciclo e al tempo stesso a una, peraltro infinita, riapertura dei giochi. Apocalissi, commedie e poi favole: si scorge un procedimento triadico, che potrebbe anche essere vagamente dialettico, se appunto il movimento non riguardasse generi e testi, portatori nella loro brevità, di una complessità ben più stratificata. Inoltre, frequenti movimenti continui di chiusura e apertura si potevano già rintracciare anche nel primo libro – dedicato fin dal titolo ad apocalissi tutto sommato piccole – e lo stesso continua ad accadere negli altri due volumi.
Per quanto riguarda, in particolare, le Favole nuove, vi si registra ancora una volta l’attraversamento di vari generi testuali, all’interno, comunque, di una forte coesione tematica e linguistico-formale di fondo: la prosa brevissima – microficción, nella definizione ispanica cara all’autore (redattore della collana di letteratura latinoamericana “Gli eccentrici” per Arcoiris, casa editrice presso la quale ha appena pubblicato Una fenomenologia dell’assenza. Studio su Borges) – si intreccia con narrazioni dal gusto più o meno weird e con quella che è una vera e propria parabola, la “Parabola dell’uva”, una trattazione condensata e per nulla pedante di cosa possa significare la parola “popolo”.
L’enfasi, in quest’ultimo caso, potrebbe sembrare superficialmente politica, nonché dotata di alcune precise connotazioni ideologiche, ma occorre a questo punto giustapporvi la lettura di almeno un altro testo, “Sull’opportunità delle revisioni normative”, ad esempio di questo passaggio: “Serina non fece in tempo ad accogliere l’imputato successivo che fu distratto da un lamento lugubre proveniente dal fosso: era la voce di Glodana Mosselet, ma assai più ampia, più profonda, più minacciosa, e di certo capace di plurimi accenti: in quella voce c’era la voce del popolo tutto, e la voce del popolo ctonio dei morti”. Il popolo di Santoro denota sempre la compresenza del popolo dei vivi e dei morti, e il mondo che decade, muore e rinasce senza soluzione di continuità nelle Favole nuove si rivela così mundus, secondo la tradizione romana, di origine probabilmente etrusca, del mundus patet. Quest’ultimo, non per caso, è stato uno dei riferimenti più importanti per Ernesto De Martino nella Fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, il testo pubblicato postumo, nel 1977, che ha goduto negli ultimi anni di un interesse intellettuale vasto e trasversale, e non solo in virtù della recente edizione einaudiana.
Per Santoro, infine, il mondo che si apre è anche una lingua che si squaderna, attraversando anche in questo terzo volume una varietà di registri, tra i quali spicca ancora una volta il ricorso ripetuto, e ripetutamente straniante, agli aulicismi. D’altronde, come si legge nell’incipit di “La sua parola”: “La sua parola è una voce porpora che precede e genera l’oblio, oppure, in casi meno gravi, se te lo concede, che ricostruisce il ricordo. In questi casi attacca a cantare per prima, e altre voci la seguono dappresso. Per me ha cantato un’aria nera…». Un’aria nera che continua a echeggiare nella testa di chi si appresta a leggere queste Favole nuove, finché anche quest’aria, e questa voce – per quanto stilisticamente consolidata, proprio perché stilisticamente consolidata – non giunge sul ciglio di una conclusione e di un nuovo inizio che ha anche la forma perturbante di una fossa.