Quando esce un lavoro “di genere” certamente corale con 24 scrittori coinvolti, forse arriva l’occasione buona per fare un piccolo punto sulla situazione italica più qualche considerazione che, proveniente da uno dei partecipanti (che quasi mai citerò), potrà essere considerata quanto meno pertinente. Comincio coll’affermare che 24 a mezzanotte, antologia curata dagli ottimi Giuseppe Maresca e Luca Raimondi per Milena Edizioni, è un prodotto di alta qualità perché di alta qualità sono i racconti che lo compongono e lo garantisco di sicuro per 23 storie della compagine, non sentendomi autorizzato a elogiare la mia. Luca e Giuseppe hanno chiamato a raccolta nomi altisonanti e “garanzie” di qualità (Cappi, Marenzana, Cometto, Gandolfi, Morozzi, Lombardi, Celoni, Proietti e Lastrucci) accanto ad autori meno conosciuti, che non sono però da meno in quanto a classe e scrittura di pregio. Sul mio taccuino personale si distinguono Angelo Orlando Meloni (“La sconfitta degli ultracorpi”), che usa il genere al meglio per mettere alla berlina il deprecabile conformismo di massa dei nostri tempi, Angelo Marenzana (“La frontiera del freddo”) con un approccio originalissimo all’incubo medioevale della peste, il grande Biagio Proietti (“Una splendida serata”) con un incubo “condominiale” che non si dimentica e ti entra nelle ossa (rotte) e Nicola Lombardi (“Le pie madri”), autore che non sbaglia mai un colpo, stavolta inventandosi un canovaccio “superstizioso” che sembra giungere dal più tenebroso folclore nostrano e che invece è di sua totale ideazione. Di altrettanto prezioso annotiamo anche una nutrita, e numericamente preponderante, formazione proveniente dalla mia città, Alessandria (Ferraris, Grenna, Marenzana), a conferma che questa e i suoi dintorni possiedono un fascino gotico al pari di certa Romagna cara a Pupi Avati. Roberto Grenna soprattutto non fa fatica a dimostrare che Alessandria sarebbe comunità perfetta per l’insediamento di una stirpe vampirica di tutto rispetto. Per non fare torti statistici vanno ancora menzionati Stefano Amato, per il racconto di apertura, dove le periferie pasoliniane grondano alla lettera di sangue e corpi smembrati, Corrado Artale che dalla militanza gestionale del TOHorror Fest arriva all’esordio narrativo ambientato in un cinema nel quale è meglio non entrare, Vincenzo Barone Lumaga con un incubo che riesce a miscelare tra voodoo e camorra, Antonio Ferrara per il quale la Nemesi non è affatto una metafora, Andrea Guglielmino con una totalmente inedita creatura dell’oscurità, Massimo Padua con un morboso e quasi sperimentale apologo sulle diversità, Barbara Panetta con un soffocante thriller onirico che ridisegna i confini della percezione, il curatore Luca Raimondi che ci fornisce la prova provata che l’inferno sta in terra, Lea Valti con un altro delizioso racconto coniugato al sangue e in romanesco, e la finale “Circolare aziendale” di Daniele Zito, divertente a dir poco (perché con l’horror si può ridere e anche molto, come hanno insegnato al cinema Roman Polanski e Mel Brooks).
A questo punto, esaurita la contabilità, se mi chiedete come sta l’immaginario horror italico, vi rispondo che a mio parere sta benissimo dato il prodotto finale di alta qualità.
Ma, se avvertite in queste righe quasi finali uno strano approccio molto burocratico che magari non mi si addice, avete anche ragione. Perché ci troviamo sempre là, nel famoso paese dei venditori di gelato in Siberia. Si producono un sacco di antologie per piccoli e valorosi editori, ma l’horror pubblicato da autori storici o rampanti in termini di romanzi editi da major importanti o di media caratura è proprio poco se non del tutto assente. Ogni tanto compare una luce nel buio – l’anno scorso Feltrinelli con Orrore di Pietro Grossi, scrittore che tra l’altro non frequenta abitualmente il genere -, ma tutto si è fermato lì. Non saprei fornire risposte, non sto dentro ai giochi né consulto la piattaforma Nielsen. Magari i numeri di vendita consigliano la prudenza editoriale, così che gli italiani possano ancora venire accusati di scarso appeal – però ai tempi di Gargoyle di Paolo De Crescenzo l’horror italico funzionava. A me allora non resta che rilanciare il mitico “teorema del Gasparotto” targato 2013 che faceva così: ma se oggi il compianto Ray Bradbury, scrittore “dichiarato” di letteratura fantastica, vivesse in Italia, magari a Lumezzane in provincia di Brescia, e si chiamasse Giacinto Gasparotto, e avesse la bella idea di presentarsi con “Il Veldt”, “Gioco d’ottobre” o Il popolo dell’autunno all’editoria che conta, che succederebbe? Gli riderebbero in faccia, sostenendo che gli italiani che producono fantastico magari un po’ incline all’horror non tirano, non vendono e, insomma, meglio che scrivano d’altro, o proprio non scrivano? Io non so proprio che dirvi, ma toglietevi dalla testa che stia parlando di me. Io non mi chiamo Giacinto.