Un romanzo avvincente e ricco di colpi di scena? Un saggio storico?
Adriano Sofri ne Il martire fascista racconta molte cose e le mette in relazione, legando quello che accadde durante il ventennio fascista nella vecchia provincia di Gorizia, persa dopo la Seconda guerra mondiale, alla guerra in Jugoslavia, alla visita di Mussolini in Sicilia, alla morte dell’anarchico Pinelli. E lo fa con l’accuratezza dello storico, la consultazione dei documenti d’archivio, i colloqui con studiosi, testimoni, parenti, e la curiosità del viaggiatore che si sposta nei luoghi che cita, guardando monumenti, lapidi, chiese e visitando i paesi sloveni a ridosso del confine di Gorizia fissato con il Trattato di Pace del 1947.
Ne esce un quadro drammatico della politica di Mussolini nei territori annessi dopo la Prima guerra mondiale, quando ci si rese conto che le terre “redente” erano abitate da sloveni e croati che non intendevano rinunciare alla propria lingua e identità nazionale. Il “fascismo di frontiera” fu diverso rispetto al regime che si affermò nel resto del Paese per il carattere marcatamente razzista nei confronti delle minoranze etniche e linguistiche.
Al confine orientale il simbolo della violenza fascista fu l’incendio del Narodni dom di Trieste del 13 luglio 1920, due anni prima della Marcia su Roma, luogo in cui si svolgeva la vita culturale e civile della comunità slovena, entrata prepotentemente nel mondo economico e commerciale della città. Gli sloveni e i croati dimostravano, con quella imponente costruzione, di non essere più solamente una comunità di contadini, operai, donne delle pulizie e “venderigole”, ma di aver maturato al proprio interno una borghesia colta e abbiente, concorrenziale con quella triestina.
L’italianizzazione forzata della minoranza fu da subito un problema di difficile soluzione. Le terre “italianissime” resistevano a ogni tentativo di assimilazione. La difficoltà della “bonifica etnica”, come la definiva Mussolini, portò a provvedimenti sempre più restrittivi e violenti, come la chiusura delle associazioni sportive e culturali, dei giornali e delle riviste, l’italianizzazione forzata dei cognomi, sino ad arrivare alla chiusura delle scuole, al trasferimento forzato degli impiegati pubblici e degli insegnanti e alla sostituzione con funzionari italiani, all’impedimento dell’uso della lingua nei luoghi pubblici, comprese le chiese. Furono presi di mira anche i preti che si ostinavano a insegnare la dottrina e a fare la messa nella loro lingua. Il vescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej e quello di Trieste Luigi Fogar furono allontanati perché troppo protettivi nei confronti degli slavi. Si pensò che, costringendo i bambini all’uso della lingua italiana, si sarebbero ottenuti risultati definitivi.
Così nel 1927 la leva magistrale portò al confine d’Italia i maestri che volevano compiere la missione di rendere italiani gli slavi, a qualsiasi prezzo. In questo contesto si inserisce la vicenda del maestro Francesco Sottosanti, nato a Piazza Armerina in provincia di Enna, insegnante a San Daniele del Friuli che si trasferì nel paese sloveno di Vrhpolje/ Verpogliano per compiere la sua missione di far diventare gli alloglotti (così erano definiti gli slavi) italiani a tutti gli effetti. Con la sua numerosa famiglia Francesco insegnò e ricoprì delle cariche pubbliche in seno al partito fascista.
Il 4 ottobre 1930 Sottosanti venne ucciso davanti alla porta di casa, perché si diceva si fosse macchiato di violenze contro i suoi scolari, sino a sputare, lui tisico, nelle bocche dei piccoli che osavano pronunciare qualche parola nella loro “sporca lingua”. La vendetta nasceva non solo dal terribile trattamento riservato ai bambini, ma anche dal rancore provato dalle organizzazioni “nazionaliste” slovene per la repressione costante del proprio popolo.
Nella sua ricostruzione, Adriano Sofri ricorda il contesto in cui avvenne l’omicidio del maestro italiano, la grande impressione che suscitò la sentenza del primo processo di Trieste in cui il 6 settembre 1930 (appena un mese prima dell’uccisione di Sottosanti) quattro sloveni furono condannati dal Tribunale Speciale alla fucilazione presso il poligono di tiro di Basovica/Basovizza, perché giudicati colpevoli di un attentato al giornale Popolo di Trieste, organo del PNF, in cui aveva perso la vita il giornalista Guido Neri.
I quattro appartenenti all’organizzazione “Borba” (Lotta) furono seppelliti nello stesso paese che oggi ospita la foiba di Basovizza e la loro memoria è stata fonte di lunga discussione politica. Per alcuni sono “martiri”, per altri solo terroristi; d’altronde anche la reale consistenza degli scomparsi nelle foibe – tragico epilogo del ventennio fascista e della guerra – è tuttora oggetto di discussioni accese. I condannati a morte non erano state le prime vittime. L’anno precedente era stato fucilato Vladimir Gortan, reo di avere ucciso un contadino che andava a votare per il plebiscito di Mussolini del 1929; anni dopo, nel 1941, il secondo processo di Trieste vedrà sul banco degli imputati 60 sloveni di tutte le tendenze politiche per tradimento contro lo Stato e si concluderà con cinque condanne a morte e lunghe pene detentive.
Questo il contesto dell’uccisione di Francesco Sottosanti. Sofri analizza le carte e scopre una verità sconvolgente: il maestro più violento non era stato Francesco ma Ugo, il fratello della vittima, che aveva insegnato nella stessa scuola. Probabilmente c’era stato uno scambio di persona che né italiani né sloveni avevano avuto in seguito interesse a chiarire: i primi perché avrebbero dovuto parlare delle aggressioni del fascistissimo Ugo, i secondi perché avrebbero dovuto ammettere di aver sbagliato obiettivo.
Il racconto ci descrive le indagini della Polizia e dei Carabinieri, le relazioni dei funzionari fascisti sulla situazione politica locale, le false accuse rivolte a innocenti, la scoperta di organizzazioni antifasciste locali, come i Črni bratje, (I Fratelli neri) formata da ragazzini di ragazzi di tredici e quattordici anni che progettavano azioni contro il regime, scoperti e torturati nelle carceri fasciste.
Il volume apre così una riflessione sulle organizzazioni slovene “irredentiste” (Orjuna, Borba e Tigr) che per anni furono giudicate negativamente dalla storiografia vicino al partito comunista jugoslavo, perché “piccolo borghesi”, e da quella italiana, perché violente e ostili all’Italia e ne racconta i personaggi, le idee politiche articolate, i rapporti a Parigi con l’antifascismo in esilio.
E Piazza Fontana cosa c’entra? Il figlio del martire fascista Francesco Sottosanti, Nino il “mussoliniano”, fu accusato di essere il sosia di Pietro Valpreda e di avere compiuto lui la strage alla Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana. La tesi del sosia è smentita dalle ricostruzioni di quanto avvenne nel tragico giorno, in cui a compiere l’attentato furono gli ordinovisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura.
Ma i Sottosanti, Ugo o Francesco, erano davvero tisici? Qui Sofri analizza in modo perfetto il funzionamento della memoria. In tantissime testimonianze di sloveni, in paesi e contesti diversi, ricorre il medesimo racconto dello sputo in bocca o quello della bambina appesa per le trecce all’appendiabiti della classe, o il ricordo dell’incendio del Narodni dom, fatto da persone che non potevano per ragioni anagrafiche essere state presenti. Si tratta di menzogna? Assolutamente no, si tratta di racconti sentiti, narrazioni tramandate, impressioni che rimangono nella memoria a prescindere dall’esperienza avuta, ma che, fatte ad un ricercatore che le ascolta, testimoniano in modo indiretto e sintetico la violenza e l’umiliazione subita da un’intera comunità.