L’isola e lo scrittore: viaggio nella Sardegna di Grazia Deledda e nella Sicilia di Leonardo Sciascia

Rossana Dedola, In Sardegna con Grazia Deledda, Giulio Perrone Editore, pp. 200, euro15,00 stampa
Antonio Di Grado, Barbara Distefano, In Sicilia con Leonardo Sciascia. Nel cuore assolato e desolato dell’isola, Giulio Perrone Editore, pp. 93, 15,00 stampa

I due volumi qui recensiti, pubblicati dall’editore Giulio Perrone, si riflettono come in uno specchio: parlano di due tra i massimi scrittori e intellettuali delle nostre lettere, entrambi in qualche modo dimenticati, le cui vite e opere a loro volta si riflettono nelle isole su cui ebbero la ventura di nascere, terre che quelle opere e quelle vite nutrono e sostanziano – Grazia Deledda e la Sardegna, Leonardo Sciascia e la Sicilia.

Il caso Deledda grida vendetta: scrittrice dal notevole talento, finissima indagatrice d’anime di luoghi e di miti, prima donna a vincere il Premio Nobel per la letteratura (1926), ella è vittima di un ingiusto e miope oblio, in quanto donna e poiché isolana – duplicemente periferica, dunque, per una critica sempre pronta a incensare la mediocrità ma incapace di scorgere la grandezza. Confinata nel regionalismo letterario, bollata come verista di seconda schiera, in realtà autrice di respiro europeo, la sua fama è andata sfocando con gli anni, il suo ricordo tenuto in vita dal premio letterario a lei dedicato e da qualche marginale associazione culturale che porta il suo nome. Basti dire che in nessuno dei palazzi romani in cui ha abitato v’è segno della sua permanenza.

Rossana Dedola prova a diradare la nebbia che avvolge la scrittrice di Nuoro con il suo In Sardegna con Grazia Deledda, col quale ci invita a seguirla in vari “itinerari” nei luoghi della vita e della scrittura. Il volume si apre con la descrizione del mare visto dal monte Ortobene: il punto esatto da dove Deledda lo vide per la prima volta, come si legge nel romanzo autobiografico Cosima: “Una grande spada luccicante messa ai piedi di una scogliera come in segno che l’isola era stata tagliata dal continente e tale doveva restare per l’eternità”.

Il mare, dunque, e l’isola, attraverso cui l’autrice ci conduce: la casa che vide crescere e diventare adulta Grazia, ora adibita a museo, le chiese e i posti descritti nei suoi romanzi e racconti. Visitiamo così città e paesini, monti impervi laghi e fiumi, gole profonde e pianure marine, spiagge e grotte costiere, accompagnati dalla descrizione di piante fiori e animali, da sfumature di colore, odori e umori, costumi e tradizioni, riti e culti, feste e festival, monumenti antichi e nuovi, col sottofondo dello scontro tra arcaismo e modernità, tra identità collettive e individuali. Storia, mito, religione, eros, banditismo, personalità di rilievo: tutto affrontato con piglio filologico. Il fitto rimando tra pagine letterarie di vari scrittori sardi si mescola a passi epistolari e articoli di Deledda, brani storici s’intrecciano ad altri antropologici, a estratti diaristici e reportage di viaggiatori che descrivono l’isola e i suoi abitanti (Balzac, D.H. Lawrence, George Steiner e numerosi altri), il tutto compreso nella cornice del racconto del viaggio per l’isola intrapreso per la stesura di questo libro.

A muovere l’autrice è l’amore per Grazia Deledda, che rivelò la Sardegna “al mondo intero”. E, certo, l’amore per la sua isola, il desiderio di raccontarla oggi, evitando gli stereotipi, le immagini da cartolina, per coglierne l’anima più profonda e sfuggente: “Come aggirarmi tra i vortici del passato e non incagliarmi nelle secche della tradizione?” si chiede a un tratto.

Scopriamo così una terra brulicante di una sana e intensa attività culturale, di una vivace scena artistica e intellettuale: “La Sardegna è una delle regioni italiane in cui non solo si legge di più, ma si scrive anche di più”. Questo lo si deve, anche, a Grazia Deledda, al suo esempio, alla sua “tenacia che le ha permesso di raggiungere la vetta più ambita per uno scrittore, a spingere verso la letteratura tanti scrittori sardi”. Del resto, i semi della grande letteratura, della vita di donne e uomini che hanno combattuto contro stereotipi e conformismi, trascorrendo l’esistenza alla ricerca della verità, non possono che germogliare.

Diverso il tipo d’oblio che avvolge la figura di Leonardo Sciascia: più corretto parlare di rimozione. Perché è vero che esiste una Fondazione che porta il suo nome, quest’anno particolarmente attiva per il centenario della nascita, e che la sua opera trova spazio nelle storie letterarie nostrane; ma il suo impareggiabile impegno militante, il senso alto e severo della responsabilità individuale, della missione etica insita nella professione intellettuale, il polemos al vetriolo contro le nefandezze e le ingiustizie di un potere connivente con il crimine – tutto ciò appare artatamente disinnescato: “Il Palazzo e i media sono ansiosi di rimuovere quella ardua lezione di moralità e di intelligenza critica”, di non far più risuonare la sua straordinaria corda civile.

Sono parole di Antonio Di Grado, coautore con Barbara Distefano di un libro che fotografa magistralmente lo scrittore e la sua terra: In Sicilia con Leonardo Sciascia. Nella prima parte, “Dall’isola al mondo (e ritorno)”, Di Grado, docente di Letteratura italiana e Presidente della Fondazione Sciascia, ci illumina sui rapporti viscerali che l’artista intrattenne con la sua isola, inquadrando il discorso in un ampio contesto storico-letterario che si allarga ad altri narratori siculi.

Anche qui, dunque, c’è un’isola, con i suoi luoghi, i suoi scrittori che “quell’isola hanno reinventato”: Sciascia, certo, ma anche Verga, Capuana, Pirandello, De Roberto, Brancati, Quasimodo, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, D’Arrigo, Bufalino, sino a Camilleri, artisti che pur “tenendo in vita l’idea di una fiera identità e d’una irriducibile alterità isolane” hanno inciso “poco o nulla sul tessuto del costume, della mentalità collettiva, dell’alfabetizzazione civile” – e già in questa contraddizione c’è lo scopo d’un libro. Che infatti affronta anche il tema della “utopia degli scrittori siciliani” quale “nobile e disperata scommessa contro la storia”, come una “sfida” che servì “a elaborare una diffidenza intellettuale, una capacità critica e demistificatrice, cui dobbiamo lungimiranti analisi e sorprendenti rivelazioni”. Tale analisi ben condensa l’opera di Sciascia, di cui si mette soprattutto in risalto la lezione di impegno civile e di fede nella letteratura, “nella parola che è memoria e monito e può essere fatto, azione, mutamento”, a cominciare dallo splendido racconto L’antimonio.

Eppure, in questo nostro tempo pieno di dimenticanza e di egoismo, di risentimento e di indifferenza, la lezione umana, artistica e politica di Sciascia è una spenta eco che risuona nel vuoto. Persino la statua eretta nella sua Racalmuto pare evocarne l’oblio: “Lasciata lì, in un punto qualunque d’un qualunque marciapiede, sul corso popolato di passanti distratti e frettolosi”, una scelta che “sa tanto di ridimensionamento voluto e anzi vendicativo, da parte di un paese che non sempre seppe capirlo e amarlo”. Come l’Italia tutta.

Nella seconda parte del libro, “Dai luoghi comuni ai luoghi di Sciascia”, Barbara Distefano traccia “un sentiero per lettori stanchi del turismo di massa”, un itinerario che lega dei punti che ebbero particolare senso nella vita e nell’opera di Sciascia, per riflettere su alcuni resistenti stereotipi sulla Sicilia “attraverso le pagine di uno scrittore troppo spesso usato per alimentarli”. Il viaggio parte dal cimitero di Racalmuto, dove riposano le sue spoglie: si rievocano la prima pubblicazione, Paesi con figure (1949), i funerali, l’attaccamento che egli aveva per la sua terra.

Quindi si giunge a Palermo, in particolare a Palazzo Chiaromonte, antica sede del Sant’Uffizio, di cui si parla nel notevolissimo racconto-inchiesta Morte dell’inquisitore, quindi nel quartiere e nella casa dove egli abitò. Interessante il capitolo sul mare, e il difficile rapporto che lo scrittore vi intrattenne. Non poteva poi mancare l’Etna e il territorio circostante, a cui Sciascia dedicò non poche pagine, motivo per approfondire il discorso sulla “sicilitudine”.

Altro luogo inevitabile è la solfatara: la storia familiare dello scrittore di Racalmuto affonda infatti nello zolfo, e numerosi sono i riferimenti concreti e metaforici nella sua opera, le inchieste che egli condusse su quei teatri dell’offesa al genere umano. Il capitolo conclusivo si sofferma sulla realtà della migrazione, altro tema centrale nella sua riflessione, affrontato in diversi racconti (tra cui il commovente Il lungo viaggio) e inchieste, metafora incarnata di un modello di vita ferocemente dominato dalla precarietà.

Il libro si chiude con una malinconica nota di ambiguità, davanti all’elegante edificio dell’“operosa e isolata” Fondazione Sciascia che “torreggia su un paese di silenzio”, quel Racalmuto tanto amato e detestato dal suo figlio più brillante: “Da gioirne per chi lo visiti col suo castello e le sue feste, da patirne come per chiunque abiti quest’isola seducente e dolorosa”.