Milano, “città di flussi” e dei transiti turistici, fieristici, universitari si presenta oggi al visitatore come un eventificio no stop ossessivamente impegnato a cancellare ogni molecola del grigiore industriale che la caratterizzava ancora negli ultimi anni del secolo scorso. Respingendo con successo verso l’hinterland metropolitano e le retrovie abitative l’esercito dei meno abbienti, il suo motore finanziario e immobiliare, succeduto agli antichi palazzinari alla Ligresti, segue ora un algoritmo spettacolare che macina infinite metrature di cemento e appezzamenti “verdi” di alberelli, apparentemente immune a qualsiasi condizionamento politico, democratico, “dal basso”, etc. Compito della politica è semmai disegnare piste ciclabili in mezzo al traffico in aumento e “architetture tattiche” che scoloriscono il giorno dopo l’inaugurazione. Questa Milano smart e green, secondo l’assessore all’urbanistica ha attirato negli ultimi 10 anni oltre mezzo milione di nuovi residenti, soprattutto dall’estero e dalla Brianza, cedendone alla provincia 350 mila. Il suo gradimento elettorale è indiscusso, almeno tra i milanesi votanti e quindi, in termini assoluti, sempre meno numerosi.
Dalle grandi manovre avviate per Expo 2015 alle prossime Olimpiadi invernali, rocambolescamente assegnate all’urbe ambrosiana in combo con Cortina D’Ampezzo, la Milano immaginata da Letizia Moratti e benedetta da Prodi, ha trovato in Giuseppe Sala il suo più entusiasta ed efficiente amministratore, dopo la parentesi paternalistica ed emergenziale della giunta Pisapia. La città dove tutto è privato ma “ad uso pubblico” è oggi la prima vittima della sua stessa auto-narrazione? O, meglio, lo sono i suoi abitanti, lusingati e ipnotizzati da un brand elevato a modello dove l’imperativo del neoliberismo viene immancabilmente declinato, con pubblicità martellante, al condizionale ipotetico dell’inclusività progressista? Sono le domande che Lucia Tozzi, giornalista napoletana, ricercatrice indipendente e studiosa di politiche urbane, solleva ne “L’invenzione di Milano” (Cronopio, 2023), un “libro bianco” situabile tra il saggio, l’inchiesta giornalistica e il pamphlet, che ha cominciato a circolare da qualche settimana tra i milanesi frastornati dal Fuori Salone del mobile. Ben documentato e puntuale, il libro rivela già nel sottotitolo (“Culto della comunicazione e politiche urbane”) il suo perno tematico e, indirettamente, anche l’interrogativo politico posto dal dossier: la comunicazione che come asset immateriale inventa ogni giorno il modello Milano, rinnovando la sua forza mediatica, ne espone anche la sua fragilità di cristallo (come si è visto in parte anche durante i lockdown). Perché non è diventata un terreno privilegiato dell’opposizione politica? Ne parliamo direttamente con l’autrice.
PULP: Il commento che sento più frequentemente ripetere da chi ti ha ascoltata o ha letto il libro è: “Finalmente qualcuno che lo dice e che racconta queste cose!”. Forse partirei da qui. Perché secondo te a parte qualche comitato di quartiere, qualche blog di architetti o qualche collettivo come Off Topic nessuno ha mai sollevato una questione grossa come quella di Milano?
LT:: Perché siamo diventati tutti prigionieri di una doppia trappola: quella comunicativa e quella delle reti. Soprattutto dall’EXPO in poi, come racconto nel libro, su Milano è calata una cappa di propaganda e censura (le due cose vanno sempre insieme),diffusa tra le persone grazie a un ricatto vero e proprio, che suona più o meno così: “Siamo come sempre sull’orlo di un precipizio, ma l’unica via per salvarsi è comunicare tutti insieme che qui le cose vanno bene, che Milano è un’eccezione, un modello positivo. Se riusciamo a convincere il mondo che è così, ne usciremo vincitori nella competizione globale. Ma è assolutamente necessario che collaboriamo tutti insieme a questo risultato, ogni nota stonata va stroncata sul nascere”. Incredibilmente i milanesi e gli italiani tutti ci hanno creduto e hanno collaborato a questa gara per mostrarsi entusiasti, meritevoli e pieni di energia, reprimendo e isolando tutte le forme di dissenso. L’altra trappola è quella delle reti. Le reti sono sempre esistite e sono state politicamente fondamentali, ma negli ultimi anni si sono impoverite dei contenuti politici e sono diventate sterili reti di contatti. In un mondo sempre più precario dal punto di vista lavorativo le reti sono funzionali non più solo al posizionamento sociale, ma anche all’incessante costruzione di progetti, che a loro volta servono ad attirare finanziamenti, che servono a costruire altre reti, in un ciclo inesauribile. Lo scenario prodotto da questa configurazione è in primis terribilmente conformista, perché pochi si espongono al rischio di compromettere la propria ragnatela così faticosamente intessuta. E poi è vacuo, poco fattivo, dedito a costruire sistemi che non hanno altro scopo se non quello di controllare più nodi possibili: al contrario di come si racconta, questo universo non è interessato a dare vita a nuove composizioni sociali, a includere più tipologie di persone o a implementare la partecipazione, ma a tenere ben salda l’egemonia della propria rete, assorbendo finanziamenti e relazioni un tempo dirette ai margini: di fatto è un universo di intermediazione al tempo stesso escludente e autoreferenziale.
PULP: Se fosse un film horror, Milano sarebbe una città infestata; il mostro è il privato che nell’immaginario è diventato “ad uso pubblico”, housing sociale etc. La narrazione dominante che descrivi nel libro è (semplificando): “il pubblico non ha soldi e fa schifo, il privato fa meglio e prima.” Una logica introiettata ovunque almeno a partire dagli anni 90, con la sanità che forse ha fatto da apripista. In che senso la consideri una logica divenuta “intrinsecamente milanese”?
LT: Nel senso che qui è stata istituzionalizzata prima e meglio (cioè con effetti peggiori, più devastanti). Se la sanità lombarda è stata effettivamente un modello esteso al resto d’Italia, lo stesso è avvenuto per esempio con l’housing sociale: è qui che è nato nei primi anni 2000 il primo esperimento all’italiana di housing sociale, cioè la costruzione di case rivolte non ai ceti più fragili della società ma alla fascia grigia di famiglie che non riescono ad accedere ai prezzi di mercato ma non sono abbastanza indigenti da ottenere un appartamento di edilizia pubblica. La declinazione nostrana si è subito distinta dall’accezione più diffusa internazionalmente, che riguarda un’offerta comunque governata dal pubblico, a favore di un’interpretazione dove il pubblico si limita a finanziare con i soldi di tutti i taxpayers ma non esercita nessun controllo sul processo, sulla proprietà e sulla gestione, che restano quasi totalmente privati e oscuri, e quindi un ottimo business immobiliare a bassissimo rischio. Dopo il “successo” milanese la fondazione Cariplo, insieme ad attori istituzionali locali e nazionali come Cassa Depositi e Prestiti, ha esteso questa accezione di Housing sociale al resto d’Italia, costituendo una rete di fondi finanziari e scrivendo il complesso di leggi che regolano il fenomeno. La stessa cosa si può dire della privatizzazione del welfare e della cultura: qui si privatizzano a tutto spiano piscine, biblioteche, centri sportivi, mercati comunali, addirittura piazze, ma sempre condendo i processi di presunta partecipazione.
PULP: Il libro descrive efficacemente il modello Milano ma alla fine il problema della politica urbanistica nei centri metropolitani non coincide forse con il problema più generale della democrazia oggi? Il fatto che in 15 anni la percentuale di votanti alle comunali milanesi sia passata dal 70% a poco più del 40% non lo esprime già plasticamente?
LT: Ancora di più del dato secco vale la pena osservare le mappe dell’astensione, che è fortissima in proporzione alla distanza dal centro o in particolare nei quartieri con il reddito più basso. Hai certamente ragione, le politiche urbane c’entrano moltissimo con la crisi della democrazia oggi. Uno dei tanti libri che purtroppo non ho scritto prima di questo avrebbe dovuto parlare proprio di questo, dell’opposizione politica tra i centri urbani, luoghi di manipolazione del desiderio, e delle periferie comunque urbanizzate (ormai anche gli spazi più apparentemente remoti sono oggetto di infrastrutturazione logistica, di flussi capitalistici estrattivi, etc) ma svuotati dalla dignità di essere desiderati, di esprimere forme di pensiero e politica che non siano catalogate come risentimento. e purtroppo a produrre questa sprezzante dicotomia non è stata la destra, ma il liberalismo progressista, la sinistra di derivazione blairiana o clintoniana, come dice Nancy Fraser.
PULP:Il volano della rendita immobiliare, cioè il motore del brand Milano, con al vertice i grandi investitori e i palazzinari social come Coima, che blocco sociale ha creato attorno a sé grazie al volano del turismo, dei B&Bs e del marketing territoriale? Abbiamo una nuova classe media?
LT: Non saprei se definirla una nuova classe media. Di sicuro però c’è una classe di proprietari che si è identificata con la prosperità dei grandi immobiliaristi, spesso a torto: chi possiede solo la casa in cui abita ha ben poco da rallegrarsi del fatto che il suo valore sia raddoppiato rispetto al momento in cui l’ha acquistata, perché se la vende dovrà comprarne un’altra che a sua volta sarà aumentata. La prima casa non è un investimento, ma pochi lo capiscono e tutti si sentono stoltamente più ricchi, alimentando un meccanismo che in breve contribuirà a impoverirsi perché quando aumentano i valori immobiliari tutto rincara, dalle rate del condominio al prezzo del pane. Quando aumentano i flussi turistici i cittadini vengono espropriati dei servizi che pagano con le tasse, dello spazio pubblico, dei contenuti culturali. Gli unici a guadagnarci sono i veri redditieri: i finanzieri, i multiproprietari, chi possiede i muri delle pizzerie e dei locali, neanche i ristoratori.
PULP: Come poni giustamente in luce, il ruolo della cultura, con la retorica dell’inclusività e della diversity, sono stati cruciali nella creazione del soft power milanese e in pratica all’espulsione delle fasce economicamente deboli da una metropoli sempre più “per ricchi. “. Oggi però abbiamo una classe creativa alla Richard Florida, con una quota crescente di expat, che però a Milano poi non “atterra” nell’innovazione reale, cioè industriale, informatica etc. che Milano non produce. Il sistema Moratti/Sala è un grande specchio per allodole destinato a infrangersi o è qui per restare perchè alla fine illustra effettivamente il funzionamento di una moderna “città di flussi” ?
LT: La classe creativa milanese direi che è integralmente votata al settore eventi: non ci sono più architetti che progettano cose solide tranne un ristrettissimo gruppo winner-take-all, non ci sono pubblicitari che producano pubblicità o editori focalizzati sulla produzione di giornali se non per parti marginali della loro attività: sono tutti impegnati esclusivamente nella produzione di eventi perlopiù inutili, dal Salone alla Love week. Penso e spero che non possa durare ancora così a lungo.
PULP: Il modello del ranking metropolitano sembra generalizzato, almeno, in Europa, Milano post Expo e olimpica, gioca un campionato (direi Tier 2) in competizione con Amsterdam, Berlino, Barcellona, Monaco, Lione, etc. Ma in Italia finora si è posta come unicum, “eccellenza”, magnete per gli investimenti immobiliari etc. Fino a che punto questo modello potrà essere anche generalizzato ad es. a Napoli o a Firenze?
LT:: E’ un modello ridicolo e suicida anche per Milano, figuriamoci per chi sta in serie D. Ricordiamoci anche che i grandi eventi sono una iattura, tanto che a competere per le Olimpiadi invernali era rimasta solo Milano-Cortina con Stoccolma: non li vuole più nessuno se non i cretini. Quando cominceremo a ignorare i ranking, le procedure di valutazione, il calcolo della qualità della vita, dei chilometri di ciclabili, le gare della percezione, anche tra università e scuole, e torneremo a chiedere e pretendere la redistribuzione uniforme delle risorse tra le classi e sui territori?
PULP: Il libro punta chiaramente il dito sulla cooptazione più o meno consapevole – attraverso la logica dei bandi, del social e del greenwashing – delle ali creative dei movimenti e di realtà ex antagoniste. Non solo il writer o il rapper “buono”, “del sindaco” etc ma l’ampia maggioranza di associazioni, no profit e del cosiddetto Terzo Settore. Dove comincia la complicità e dove la negoziazione? E da dove potrebbe ripartire il conflitto?
LT: Il conflitto può ripartire dalla consapevolezza che il dissenso e la critica fanno più male di prima perché la finanza a impatto sociale che sta plasmando le nostre società ha più bisogno di consenso rispetto ai vecchi capitalisti. Danneggiare l’immagine di chi ci impone le privatizzazioni, il precariato, devasta l’ambiente e la società è più produttivo della mediazione collaborativa. Le proposte possono serenamente seguire il conflitto, non bisogna farsi tarpare le ali dalla continua richiesta di alternative credibili in questo contesto. Dobbiamo cambiare il contesto ideologico, liberarci dei loro paletti per potere costruire le alternative, che ci sono. Dobbiamo lasciarci contagiare dalla Francia e non lasciarla isolata.